[ a cura di G. Romani, Interlinea, Novara 2019 ]
I Moncalvo di Enrico Castelnuovo aveva goduto di un discreto successo editoriale quando era stato pubblicato da Treves nel 1908. Eppure, nonostante Croce avesse definito Castelnuovo «uno dei migliori, dei più stimabili autori italiani di romanzi ben fatti», il romanzo e il suo autore erano successivamente scivolati nel severo dimenticatoio novecentesco, tanto da risuonare oggi quasi sconosciuti. Quest’anno il romanzo è stato finalmente restituito all’attenzione di pubblico generale e addetti ai lavori da Interlinea, con la cura di Gabriella Romani. Croce aveva ragione a lodare la qualità di prosatore di Castelnuovo: pur inserendosi all’interno di un quadro culturale in cui la narrativa era considerata più come uno strumento di educazione nazionale che non come un’espressione artistica in sé, I Moncalvo vanta una dignità letteraria non trascurabile. Il romanzo si distingue per una prosa fluida, mai ridondante, dove il ritratto della Roma giolittiana emerge con impietosa accuratezza, e i personaggi vengono finemente descritti in uno stile da saga familiare ottocentesca, ma non scevro della complessità psicologica novecentesca. Tuttavia, è nel suo valore di testimonianza storica che risiede il principale motivo d’interesse dell’opera. Al centro del romanzo si squadernano le vicende dei fratelli Moncalvo, che propongono posizioni assai diverse rispetto al rapporto tra le proprie radici ebraiche e il nuovo stato italiano: da una parte Gabrio, pronto a ripudiare l’identità ebraica e a considerare la conversione alla «religione della maggioranza» per potersi integrare saldamente nella Roma «che conta» (quella di destra e papalina); dall’altra Giacomo, convinto invece, pur da una prospettiva laica, della necessità morale, prima ancora che religiosa, di un’integrazione che non metta in discussione le radici culturali ebraiche. Sin dalle prime pagine risulta chiaro come l’orizzonte del romanzo non rimanga circoscritto all’interno di una suggestiva trama familiare, ma vada ad abbracciare un preciso quadro storico, dove il tema dell’integrazione è tutt’altro che archiviato. Soprattutto, colpisce l’inquietante precocità con cui il romanzo tematizza il fallimento dell’illusione di quella integrazione culturale che aveva nutrito le battaglie risorgimentali cui gli ebrei avevano contributo in misura affatto marginale. Il valore del romanzo non si esaurisce esclusivamente nella sua capacità di documentare un disinganno storico, per estendersi invece all’atteggiamento con cui l’autore ne intraprende la scrittura – atteggiamento che, suggerisce Romani, va letto in chiave allarmistica; si tratta, cioè, osserva finemente la curatrice, di una «riflessione ansiosa più che bonaria descrizione», soprattutto considerando che Castelnuovo vi si dedica proprio a ridosso dei preoccupanti casi di antisemitismo che avevano turbato la comunità ebraica internazionale, e sulla soglia dei tragici eventi che avrebbero scosso l’Europa nel giro di pochi anni. È in questa «riflessione ansiosa» che risiede l’elemento più prezioso del romanzo, che in questo senso può essere letto come espressione letteraria di un’inquietudine epocale tristemente premonitrice. Non si può non sottolineare anche l’inquietante attualità di questo allarmismo, che, come chiosa Romani, a tutt’oggi non risulta ancora essere anacronistico. L’operazione di recupero editoriale va perciò lodata su più piani, avendo riproposto un’opera meritevole per dignità letteraria, per valore di testimonianza storica di un periodo cruciale della storia italiana, ma anche per quella capacità, tipica della grande letteratura, di riflettere sul nostro hic et nunc. Da sottolineare, infine, gli ottimi apparati di cui si avvale l’edizione: alla preziosa introduzione di Romani, che contestualizza il romanzo in un ampio quanto dettagliato quadro storico, ideologico e culturale, si accompagna un sobrio ma prezioso apparato di note, di carattere esplicativo e linguistico. Concludono il volume una Nota di Alberto Cavaglion, e una nota biografica su Castelnuovo.
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