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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Luigi Di Ruscio, Poesie scelte. 1953-2010

[ Marcos y Marcos, Milano 2019 ]

Luigi Di Ruscio, si sa, non ha avuto fortuna in Italia, né come prosatore né come poeta, soprattutto per la dispersione delle pubblicazioni che l’hanno riguardato. Una sorta di parziale riparazione il prosatore ha ottenuto qualche anno fa con la pubblicazione in volume, presso Feltrinelli, dei suoi principali romanzi (a cura di Cortellessa e Ferracuti). Ora questa antologia delle poesie, curata e introdotta da Gezzi e prefata da Raffaeli, copre anche l’altro fianco dello scrittore, quello del poeta, non certo inferiore al prosatore. E, visto che le sue raccolte sono state leggibili solo presso editori minori o minimi quanto a diffusione, o sono disperse in libri collettivi, essa consente una prima possibilità di lettura critica d’insieme, non solo al lettore, ma anche allo studioso. La raccolta antologica – lo apprendiamo dalle pagine di Massimo Gezzi – sebbene postuma è infatti senz’altro legittimata dall’autore, poiché proviene da un file messo insieme dallo stesso Di Ruscio e pervenuto al curatore. Nei testi troviamo anche una serie di varianti e attualizzazioni rispetto alle versioni precedenti, il che segnala un continuo aggiornamento anche tematico di molte composizioni e delle stesse raccolte. Insomma l’antologia è un libro organico, e va letto anche come una sorta di work in progress, come una composizione poematica. È noto che Di Ruscio, dopo vari tentativi di trovare lavoro in Italia, dove aveva comunque già pubblicato le prime raccolte, era emigrato in Norvegia, dove era stato operaio metalmeccanico per quarant’anni, mettendo su famiglia. L’etichetta di poeta-operaio, e quella, forse più benevola, di operaio-poeta, è tuttavia inadeguata alla qualità e complessità della sua produzione. Come opportunamente scrive Raffaeli nella sua breve prefazione, con una formula felice che è stata già valorizzata, Di Ruscio è stato «qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court». E se dal lato formale la sua versificazione risulta inconfondibile per il flusso continuo, martellante, ostinatamente asindetico, dei versi, ognuno dei quali sembra ripetere con infinite variazioni e riprese quelli precedenti e motivi di altri testi (ed è evidente tuttavia, in tali costanti, una progressiva maturazione dei mezzi espressivi), dall’altra, sul piano tematico, non può che colpire la iteratività e la circolarità di tre motivi: la condizione operaia e la materialità del lavoro e della vita, com’è prevedibile, ma, ancor più, la fatica e ossessione del far poesia, dello scrivere battagliando con la carta e con i tasti della macchina da scrivere, del lavorare accanito con e contro le parole; questo motivo ricorre nella maggior parte delle poesie qui antologizzate, ed è talvolta quello unico o dominante, quasi un duplicato della fatica operaia. Accanto a questi due motivi prevalenti, sorprende la presenza di espressioni, lemmi, sintagmi e immagini che provengono dal linguaggio e dalle suggestioni religiose e liturgiche; una presenza il cui senso è, credo, tutto da indagare e che provvisoriamente si potrebbe ricondurre ad una dimensione figurale e creaturale. Il “caso” Di Ruscio è, insomma, fra quelli che comportano la necessità di ripensare il canone del Novecento. Non si tratta, come da formula di rito – qui opportuna – di proporre all’attenzione del pubblico più vasto uno scrittore immeritatamente dimenticato, o seguito da una schiera ristretta di estimatori. Si tratta piuttosto di rivedere criteri e categorie di valori e indirizzi letterari che, seppur variegati o da tempo ridisegnati, lasciano da parte non solo singoli scrittori, ma segmenti di possibilità espressive e di approcci tematici tutt’altro che marginali, non certo ascrivibili alla tradizione novecentista, ma neanche, tout-court, a quella antinovecentista e “prosastica”.

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