[ Laterza, Roma-Bari 2015 ]
«Margine», come altri termini della rappresentazione spaziale, è una metafora concettuale non neutra né innocente. David Forgacs, nella sua storia dell’esclusione sociale italiana postunitaria, ne «guarda» i molteplici significati utilizzando come denominatore comune i dispositivi materiali e simbolici che hanno contribuito a costruire, per opposizione, il «centro» della nostra identità nazionale. Suddiviso in cinque capitoli (Periferie urbane, Colonie, Sud, Manicomi, Campi nomadi) corredati da immagini fotografiche, il libro a un primo sguardo induce a ipotizzare un trapianto del pensiero di Foucault, egemone nell’universo degli Studies, nel campo della storiografia culturale italiana. A una più attenta lettura ci si avvede invece che, se Foucault è presente per la descrizione delle «formazioni discorsive» (p. 321) disciplinanti, risulta decisivo soprattutto Ernesto De Martino. Se ognuno dei cinque casi analizzati nel libro ha una sua autonomia, è nelle connessioni tra i capitoli terzo e quarto, dedicati al Sud e agli ospedali psichiatrici, che si rivela infatti l’efficacia del metodo di Forgacs (e l’impiego di De Martino).
La lettura delle Figure 3.1 e 4.1, a esempio, con cui prendono avvio i due capitoli centrali (pp. 141 e 211) è, inizialmente, analitica: la lamentatrice di Pisticci, fotografata in Basilicata durante la spedizione di De Martino del 1952, e le due internate oltre la grata del manicomio di Gorizia inserite in un libro introdotto da Franco Basaglia (Morire di classe, 1969) sono immagini diverse tra loro, per epoca e per contesto. Tra le due figure, però, l’interpretazione narrativa e saggistica di Forgacs finisce per costruire nessi dialettici e oppositivi di grande suggestione cognitiva. Nei confronti delle rappresentazioni ufficiali del margine in cui decide di operare, De Martino genera riflessioni provocatorie e interdisciplinari, e il suo approccio al Sud svela la sua potenza se comparato con quello, più celebre, di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Mentre Le-vi oscilla tra empatia e repulsione (p. 168), De Martino legge invece il lamento rituale e le pratiche magiche come forme reattive alla «crisi della presenza» e il tarantismo come «ritorno del represso» (p. 193). Esemplare è il caso di Aurelio S. di Galatone, internato al manicomio di Lecce dopo che il rituale dell’esorcismo musicale ha fallito (p. 198). Partecipe di una verifica di entrambi i margini (il meridione e l’internamento) è, del resto, Giovanni Jervis, che fu a fianco di De Martino nelle spedizioni al Sud prima di condividere gli esperimenti di apertura dei manicomi a Gorizia: «il manicomio era il luogo in cui finivano alcune delle persone osservate da De Martino nelle aree rurali povere, una volta che la categoria magico-religiosa della “possessione” […] ebbe lasciato il posto a categorie mediche quali la schizofrenia paranoide» (p. 210). Agendo sui margini decisivi del libro (le colonie interne e la follia), il pensiero di De Martino, né progressista né decostruttivo, induce a «storicizzare l’intemporale» (Carlo Ginzburg) e a conoscere dialetticamente la dimensione socialmente situata. Il deciso recupero di De Martino da parte di Forgacs, dunque, è l’interessante segno di un nuovo sdoganamento, negli studi culturali, di modelli e strumenti materialisti apparentemente dimenticati: nella conclusione infatti l’autore propugna esplicitamente l’«etnocentrismo critico» demartiniano come il metodo capace di «una comprensione critica delle relazioni di potere e della nostra posizione al loro interno» (p. 327).
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