allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Michael Cunningham, Un cigno selvatico

[ trad. it. di C. Prosperi, La Nave di Teseo, Milano 2016 ]

Dopo essersi misurato con le saghe familiari, gli spaccati storici di taglio iperrealista, le prose brevi e la narrativa di carattere autobiografico, Michael Cunningham ci consegna una raccolta di fiabe desunte dalla tradizione popolare, ma intelligentemente rivisitate in chiave dark. Nel suo ultimo libro, infatti, il pluripremiato autore di Le ore (adattato al cinema con perizia dal regista britannico Steven Daldry) si appropria di un materiale la cui memoria è condivisa, nel tentativo, da un lato, di attualizzare le possibilità interpretative, dall’altro, di metamorfosare dei fantomatici “originali”, immaginando per ciascuno di essi il “fuori campo” meno atteso. A ben guardare, le storie che credevamo di conoscere alla perfezione e che ci sono state raccontate di frequente quando eravamo piccoli diventano, in Un cigno selvatico, metafora di qualcos’altro: pretesto tramite il quale affrontare di petto una realtà frantumata, che solo la magia di una certa letteratura per l’infanzia sembra poter ricomporre, nonostante tutto, in un’eventuale visione d’insieme; reificazione del sempre più assiduo spaesamento provocato dalle società capitaliste avanzate, nei confronti di quanti non sono in grado di verbalizzarne l’impatto – e ancor meno col distacco necessario.

Sono proprio l’ironia, il sarcasmo, la distanziazione derisoria a fare dell’esperimento di Cunningham molto più che un semplice esercizio di stile. Poco importa stabilire chi fosse veramente la Bestia, e se valesse la pena liberarla dall’incantesimo; al di là dei destini che lo scrittore ha deciso di regalare ad ognuno dei suoi conosciutissimi personaggi, quello che conta è che il loro universo paia coincidere alla perfezione – nel bene e nel male – con il nostro. Popolato da principi che tirano di coca; cassiere assuefatte alla maledizione di una routine troppo diversa da quella che avevano sognato; ragazzini che giocano a fare gli adulti, senza nutrire alcun desiderio di crescere; vecchi che giocano a fare i giovani, con tutte le conseguenze che ne derivano… Se in La regina delle nevi (2014) l’ombra di un sortilegio planava su ogni singolo protagonista, dando l’impressione di poterne modificare le traiettorie esistenziali, qui è chiaro che quanto pensiamo stia succedendo non accade per via del fantastico che fa irruzione nel quotidiano, ma perché qualcuno s’ingegna – con ben poca discrezione e degli appelli diretti all’uditorio – a tirare le fila di vicende studiate, ancor più del solito, con l’intenzione di aprirci gli occhi di fronte ad evidenze troppo spesso “addomesticate”, anziché, più coraggiosamente, “problematizzate”.

In un certo senso, è quel che le illustrazioni della disegnatrice giapponese Yuko Shimizu cercano di suggerire anch’esse, seppure più implicitamente. Come in ogni raccolta di fiabe che si rispetti, anche in questa – tutt’altro che convenzionale – non potevano mancare le “figure”. A differenza di ciò che accade altrove, esse non descrivono in maniera ulteriormente icastica quello che è detto a parole, ma commentano – a seconda delle volte, in modo complementare, accessorio o antifrastico – i contenuti di ciascun capitolo. La loro presenza, oltre a facilitare le transizioni da una fiaba all’altra, con i cambiamenti di registro che possono derivarne, accentua il valore che l’opera vuole assumere, non solo quale “discorso”, “riflessione”, “analisi”, ma anche in quanto oggetto materiale: amuleto attraverso cui lasciarsi catapultare in altri mondi, per poi rendersi capaci di riscoprire quello in cui viviamo, e provare ad esplorarlo con finalità diverse.

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