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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Frederick Wiseman, “At Berkeley”

[Usa 2013]

Trentacinquemila studenti, quattromila docenti, tremilacinquecento corsi, una fulgida storia testimoniata da ventinove premi Nobel. Come funziona la più prestigiosa università pubblica del mondo? È quello che cerca di capire Frederick Wiseman – mostro sacro del documentario, da quasi cinquant’anni impegnato nell’esplorazione delle istituzioni americane – in At Berkeley, presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia e finora uscito solo negli Stati Uniti e in Francia.

Laureato in giurisprudenza a Yale, docente a Boston, poi regista progressista, Wiseman si trova a suo agio nel campus californiano. Dove vediamo trionfare la parola, più che in un film di Rohmer. Nelle quattro ore di proiezione sono pochi gli spazi lasciati al silenzio: inserti consacrati all’osservazione del(l’unico) giardiniere, del personale delle pulizie, degli operai che lavorano alla costruzione di nuovi edifici. Lavori muti. Tutto il resto è fatto di parole: lezioni, discussioni fra dirigenti, fra docenti, fra dirigenti e docenti, fra studenti, fra studenti e docenti. La parola è strumento di insegnamento e di confronto democratico. Due argomenti si impongono fin dall’inizio: le difficoltà economiche dell’ateneo e le disuguaglianze sociali. Nel corso degli ultimi decenni Berkeley ha subito una drastica riduzione del finanziamento pubblico (60% del budget negli anni Ottanta, 16% nel 2010, anno delle riprese; ora è ulteriormente diminuito). Il problema è come salvaguardare il profilo pubblico, l’autonomia di un’istituzione che di fatto si sta sempre più privatizzando. In questo senso è fondamentale mantenere inalterato il prestigio dell’ateneo attraverso il reclutamento dei migliori ricercatori, affrontando una lotta darwiniana con gli agguerriti concorrenti (alcuni spezzoni di lezioni esemplificano lo standard qualitativo: dalla ricerca sul cancro all’astrofisica, senza trascurare le metafore sessuali in John Donne). La reputazione di cui gode il brand Berkeley consente l’attrazione di studenti provenienti da Sudafrica, Medio ed Estremo Oriente. Dove sono in aumento le famiglie disposte a pagare le alte tasse dell’università californiana. Un’istituzione progressista che sensibilizza gli studenti sulle disuguaglianze sociali nel mondo e che finanzia borse di studio per poveri meritevoli. Ma che sta progressivamente perdendo la middle-class, soffocata dalla crisi economica e sempre meno in grado di mandare lì i propri figli. Sono verosimilmente questi ultimi a organizzare una manifestazione di protesta in cui fra le tante e contraddittorie rivendicazioni non manca il diritto a un’istruzione universitaria gratuita. Una richiesta fuori dalla realtà. Ma fuori dalla realtà, anacronistica, rituale è per Wiseman l’intera manifestazione (è significativa la diligente sospensione dell’occupazione della biblioteca un’ora prima dell’ultimatum). Solo una percentuale residuale di studenti partecipa alla lotta: tutti gli altri studiano distesi sui prati, seguono i corsi o fanno esperimenti in laboratorio. Se ai tempi del più volte evocato Mario Savio (il leader della contestazione del 1964-65) frequentare Berkeley costava meno e ci poteva permettere di fare altro, ora non è più possibile (anche se non viene detto – il film è privo di voce over ­– l’anno dopo il movimento Occupy Cal smentirà questa percezione). Il rettore ironizza sulle astratte rivendicazioni di oggi rispetto a quelle ben più concrete espresse dalla sua generazione negli anni Sessanta (Vietnam, libertà di espressione, ecc.). L’atteggiamento pacato, l’affabilità, il senso di responsabilità ne fanno un’incarnazione di Berkeley, che Wiseman ritrae come un’istituzione salda, proiettata nel futuro e capace di assorbire le modeste tensioni che si creano al suo interno attraverso una perpetua e pervasiva autoriflessione. Questa placidità è trasmessa anche sul piano formale (long takes, raccordi di montaggio fluidi, ecc.). Wiseman riproduce, infatti, il punto di vista degli amministratori di questa istituzione. È comprensibile, per habitus e prossimità generazionale. Ogni tanto si sente però la mancanza di un occhio spaesato, che permetta di indagare questo microcosmo sociale da altre prospettive.

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