[ Liguori, Napoli 2012 ]
Curioso destino quello di Entartung (1892-93) di Max Nordau. Scritto da un medico ebreo-ungherese allo scopo di “curare” il male della modernità, diverrà quasi da subito una delle letture obbligate, ma per motivi diametralmente opposti, di almeno due generazioni di scrittori. Il concetto di degenerazione, si sa, è centrale nel darwinisimo sociale della fin de siècle: negazione e antitesi del principio-cardine dell’evoluzione, esso ha origine nella fisiologia dell’individuo e nella genetica della specie, ma il suo sviluppo trova poi potentissimi reagenti storico-sociali nei ritmi frenetici della modernità, dove abbondano casi di nevrastenia, «egotismo» e inettitudine («inanismo»), e tendenze autodistruttive di varia natura legate all’alcool o al fumo.
E se il progresso è tensione verso il futuro, la degenerazione è invece moto retrogrado e involutivo, «atavismo» dovuto a incapacità di adattamento al nuovo ambiente vitale: ed è appunto questo insieme di tendenze che la scienza positiva deve arginare, impedendo che la patologia dilaghi in epidemia anche per l’influsso pericoloso della letteratura e della sua capacità di suggestionare le masse. Degenerazione voleva essere appunto una diagnosi scientifica di tutto ciò, in un migliaio di pagine fitte di citazioni ed esempi. Nel libro di Silvia Acocella sono analizzate da un lato la scrittura di Nordau e dall’altro la ricezione del suo libro più noto. La studiosa coglie bene la contraddizione (spia di un ritorno del rimosso), già in re, tra la condanna esplicita dell’arte degenerata e la coazione a riprodurne, nella scrittura appunto, tutti i “difetti”: tendenza alla digressione e alla dispersione, resa pulviscolare e franta di mondi d’invenzione che la scienza dovrebbe spiegare iuxta propria principia.
Quanto al secondo aspetto, si ha qui finalmente la concreta misura dell’influenza di Degenerazione nella cultura letteraria italiana a cavallo tra i due secoli: tema certo non nuovo, ma affrontato sinora in lavori settoriali (Nel prisma di Tozzi di Getrevi, del 1983), che non potevano dare l’esatta percezione del fenomeno, o che non sempre coglievano la peculiarità della ricezione di Nordau, e cioè il fatto che Degenerazione fosse di fatto diventato un «canone involontario di classici» (p. 103). Eterogenesi dei fini bene espressa da un lettore precocissimo di Nordau come Pirandello, che mentre si chiedeva: «chi al presente non è un degenerato? Chi può vantarsi sano»?, al contempo non poteva non rimanere affascinato da quel «museo antropologico e degli orrori» (p. 49).
La tesi, molto interessante, di Acocella è che proprio questa lettura rovesciata di Nordau abbia contribuito in modo rilevante alla formazione del modernismo in Italia. Ed è notevole, a questo proposito, che il paradigma di Degenerazione veda ai suoi estremi opposti ma coincidenti Zola e il naturalismo da un lato e Wilde e l’estetismo dall’altro, tracciando in entrambi i casi una frattura netta con la letteratura classico-romantica e con l’arte “sana” di Goethe. Tra gli operai alcolizzati di Zola e gli esteti di Wilde, insomma, Nordau vedeva molte più analogie che differenze: i due sociotipi non erano per lui che esempi di un generale esaurimento della razza e di un’incapacità endemica di adeguare il sensorio ai ritmi spossanti della vita moderna.
Entrambi, non a caso, forniranno al modernismo un campionario umano di “brutti” e di inetti, e prefigurano i giovani senescenti e inibiti di Tozzi o i vecchi immaturi di Svevo, anche se il valore paradigmatico dell’arte degenerata si coglie forse ancora meglio sul piano delle forme: se infatti Zola e Tolstoj non riescono mai a cogliere l’unità del reale nelle loro accuratissime descrizioni dei fenomeni, sconfinando continuamente nell’estetismo (il primo) o nel misticismo (il secondo), i modernisti, dal canto loro, erediteranno proprio dai primi l’idea di una sostanziale inafferrabilità del noumeno. Il che renderebbe però necessario ridiscutere a fondo la celebre affermazione di Giacomo Debenedetti secondo cui «il naturalismo narra in quanto spiega, mentre Tozzi narra in quanto non sa spiegare» (perché la difficoltà a «spiegare» sarebbe, agli occhi di Nordau, già in Zola) e, anche, tentare di definire una volta per tutte i confini cronologici, ancora molto incerti e mobili, di quello che chiamiamo modernismo.
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