allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Gianfranco Rosi, Sacro GRA

[ 2013 ]

Sacro Gra, premiato col Leone d’oro, arriva dopo venticinque anni di attività. Il primo lavoro di Gianfranco Rosi è Boatman (1993), ed è dedicato a un barcaiolo del Gange, il fiume sacro dove si immergono migliaia di devoti ogni giorno, e dove i corpi defunti compiono il loro ultimo viaggio; Below Sea Level (2008) racconta la vita di una comunità di homeless, in California; El sicario-room 164 (2010) è un film intervista a uno spietato killer del narcotraffico messicano. Un tratto forte della poetica documentaria di Rosi è la collocazione della macchina da presa in un luogo fisico e simbolico di soglia, di sospensione tra la vita e la morte (una barca, un paesaggio di “rifiuti” umani, una stanza di motel); man mano che si procede, il film fa entrare lo spettatore in una zona grigia (talvolta anche testualmente: il primo film non è in bianco e nero ma in grigio).

Andando avanti, diventa chiaro che il tempo della visione e del racconto, vale a dire il metraggio e il tempo della storia – quello della durata effettiva del vissuto ripreso e della risonanza di significati in cui si scava – appartengono a ordini di misura lontanissimi. Ed è proprio in questo scarto antinaturalistico che l’autore, che mai interviene nel flusso del racconto, costruisce il suo stile di visione. Non è una narrazione in tempo reale, né in presa diretta, malgrado l’apparenza documentaria. La funzione referenziale del discorso è messa in scena, ricostruita nel dettaglio, per essere disincarnata attraverso il lavoro che ha preceduto la scelta dell’inquadratura, la selezione del girato, o la riscrittura del montaggio. El sicario assumeva più frontalmente questo procedimento di riduzione a un’intelaiatura simbolica, scegliendo l’unità di luogo di una camera di motel.

E così s’ingannerebbe, probabilmente, chi pensasse che i lavori di Rosi affrontano questioni sociali molto specifiche come i rituali induisti, le condizioni degli homeless o la pratica sudamericana dei rapimenti. Il qui e l’ora dell’ambientazione si rovesciano in essenze, piuttosto che rimanere strutture del racconto; sono uno spazio-tempo dove l’al di dentro e l’al di fuori si mescolano, perché la vita degna di ascolto occupa una zona di confine tra un’identità pregressa rimasta sui bordi del testo, e un’identità che si costruisce per sottrazione di involucri e di passato. In un certo senso, i protagonisti diventano personaggi assoluti, eroi tragici di una storia che può valere come storia di tutti. (Isolandoli dalle comunità affollatissime a cui appartengono, lo sguardo narrante stigmatizza al massimo, grazie alle immagini come ai silenzi, questa condizione di trascendenza).

Sacro GRA è nato da un’idea dell’urbanista Nicolò Bassetti, che, ispirandosi a un saggio di Renato Nicolini, in venti giorni ha percorso a piedi il Grande Raccordo Anulare, ossia la cintura autostradale che, come un anello di Saturno – secondo la definizione di Fellini – circonda Roma. Rosi riprende e rimonta le vicende di alcune vite esiliate dalla città, espulse ai bordi di questo luogo senza identità, restituendo sguardo e visione, come in una stratigrafia allegorica, ai microcosmi umani del GRA. Così la macchina da presa riprende, tra le altre, la vita del palmologo ossessionato dal parassita che aggredisce le sue piante, delle prostitute invecchiate, dell’aristocratico decaduto e del nobile mitomane, del barelliere del 118, dell’attore di fotoromanzi, delle devote mariane.

Come in un viaggio senza data di ritorno, l’autore ha girato continuamente, tagliando più informazioni possibili, in un’attesa – quasi mistica – del momento in cui queste vite ci rivelano le loro verità: per poterle ricombinare e disporre in uno scenario dalle possibilità di combinazione tanto rigorose quanto aperte e infinite – ed è in tal senso, direi, che vale il riferimento di Rosi, tra i commenti di regia, a Le città invisibili come opera che ha accompagnato il lavoro – come pure torna in mente il finale del libro di Calvino, che diventa quasi una cifra eloquente della poetica del film: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

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