[ Einaudi, Torino 2013 ]
Non si è certo dovuto aspettare Geologia di un padre, conclusione di una tetralogia inaugurata nel 2003 con Nel condominio di carne e proseguita con La vicevita (2007) e Addio al calcio (2010), per rendersi conto che paternità e varie forme di lascito, biologiche, culturali e storiche, fossero argomenti generativi nell’opera di Magrelli; ma con questo volume l’autore ha ritessuto uno dei suoi temi più antichi (e più importanti, se è giusta l’impressione che il venire da qualche parte e l’uscire da sé siano gli ideali martelli pneumatici che hanno demolito la chiusura olimpica con cui Magrelli si presentò in Ora serrata retinae, nel 1980) estendendolo a questioni cruciali con cui il nostro tempo sta cercando di confrontarsi.
Al centro del libro c’è un padre, quindi non un personaggio, ma due posti e una relazione (padre-figlio), e l’avvicinamento a questo sistema piccolo ma gravido di effetti viene condotto geologicamente, vale a dire addentrandosi in Gea con l’ausilio di apparati e protocolli scientifico-razionali. Su questo scheletro concettuale Magrelli organizza un opus tripartito, con una prefazione in immagini (firmata, con tutte le vertigini paradossali che ciò comporta, da suo padre morto) e un’appendice in versi che incorniciano la sezione centrale e eponima, costituita da ottantatre brevi capitoli o quadri numerati in prosa: si tratta dunque di un libro basato su pluralità e discontinuità, seriata però e inanellata in modalità varie.
La materia distribuita in queste caselle è autobiografica: dopo la morte di suo padre Giacinto, Valerio Magrelli, come lui stesso racconta, riprende, aumenta e riordina la messe di appunti stesi sulla figura paterna. È fondamentale capire che i registri più toccanti e commoventi, pur tanto forti nel libro e orchestrati con mano così sapiente, non lo esauriscono, e che questo non è un album di famiglia squadernato davanti agli occhi del lettore. È invece un lavoro, un’elaborazione pubblica del lutto da parte del figlio che deve fare i conti con la trasmissione di un’eredità bifronte, sontuosa ma avvelenata, per vaccinarsene e poterla a sua volta trasmettere come padre, ma addomesticata; e questo può essere un discorso basilare ai nostri giorni, in cui troppi Telemachi producono, invocando l’Ulisse di turno perché torni a far strage dei Proci, enunciati clamorosamente reazionari, e li candidano addirittura a pilastri per la rifondazione della società.
Parlando di suo padre, Magrelli racconta della sua predisposizione depressiva usando la teoria degli umori e il nero della melanconia, e vede Giacinto diviso fra un padre di luce e un padre di tenebre. Questo nero, che tutto il libro si incarica di drenare e chiarificare, la ricostruzione inventiva di Magrelli lo identifica con l’influsso della terra d’origine del padre, Pofi, borgo del basso Lazio, in cui vengono concentrate le più nefaste forze dell’Origine innominabile. È in questa Preistoria, che ha anche ereditato, che il figlio dovrà scendere; dunque dovrà scendere anche in sé, alla ricerca del suo nero. Lo fa scrivendo, certo, ma come? Il movimento verso il basso è accompagnato dal movimento orizzontale di una lunga passeggiata in biblioteca, che deve servire a tenere aperta la strada per il ritorno.
Forse mai come in questo libro il posizionamento nella scrittura propria di citazioni altrui è stato così importante per Magrelli. Tutta l’opera è infatti intarsiata di brani brevi o brevissimi provenienti dai risultati più alti della letteratura moderna, e soprattutto da quei lavori che hanno fatto questione dei padri, delle consegne e delle eredità; il problema, è chiaro, è in che modo e a quali scopi la trasmissione di forme, di artefatti tecnici, possa interferire sulla trasmissione di corredi genetici e linee genealogiche. Non dice forse Stephen Dedalus, in una celebre scena di Ulysses più volte richiamata tra le pagine di Geologia di un padre, che l’artista, ritessendo continuamente la propria immagine, arriva in fondo a farsi padre di sé stesso?
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