[a cura di M. Venturini e S. De March, Prefazione di L. Barile, Le Lettere, Firenze 2010]
È vostra la vita che ho perso raccoglie le interviste che a partire dal 1964, l’anno di pubblicazione di Variazioni belliche, Amelia Rosselli ha rilasciato alla carta stampata, a programmi radiofonici e televisivi. Pur ricalcandosi spesso tra loro, questi dialoghi appaiono di notevole interesse, soprattutto quando tradiscono un gioco di riflessi con i saggi e i testi critici che la poetessa era impegnata a scrivere negli stessi anni (scritti che ora si leggono in A. Rosselli, Una scrittura plurale, 2004). «Modelli in poesia non ne ho avuti […]. Non so dire da chi derivo dal punto di vista letterario» si legge in una pagina di È vostra la vita che ho perso (p. 36). In altri passi del libro, invece, la Rosselli si spinge a fare dei nomi, disegnando, tra un’intervista e l’altra, una costellazione tanto estesa quanto eterogenea: Montale, Rimbaud, Campana, Scotellaro, Calogero, Scipione, Eliot, Keats, Ungaretti, Pavese, Penna. Rovesciando specularmente l’immagine dell’allieva di nessuno, l’autoritratto dell’autrice dalle molte influenze sembra anch’esso legittimare un luogo comune della critica; e cioè che ogni tentativo di stabilire la genealogia dei versi e delle raccolte di Amelia Rosselli si scopre sempre un po’ approssimativo o traballante.
Collocare questa voce all’interno della mappa della poesia italiana secondonovecentesca, così come ricostruirne la tradizione, comporta dubbi e cautele che non conosciamo di fronte a Raboni o Sanguineti, gli altri nomi di spicco della stessa generazione. Più volte, in È vostra la vita che ho perso, la Rosselli rivendica per sé originalità e capacità d’«innovare», fino addirittura a farne dei parametri con cui misurare la distanza dai propri coetanei (i neoavanguardisti «hanno tirato fuori i testi tradotti facendoli passare come innovazioni stilistiche quand’erano digeriti da tempo da chi li aveva studiati in lingua», p. 187). A veder bene, però, dalle risposte date nel corso degli anni affiora pure l’intenzione della poetessa di imbrigliare, qua e là, l’alta dose di soggettivismo della propria poesia.
Tornano, infatti, le riflessioni presentate per la prima volta nel noto saggio Spazi metrici, e dunque le proposte di un’aggiornata ritualizzazione delle forme, con una metrica non più libera (e liberata) ma che si orienti, invece, «verso un nuovo classicismo», una nuova regolarità (p. 113). E, sul piano dei contenuti, è significativa la scelta programmatica di rifiutare gli eccessi e le derive della confessional poetry. «Il ritorno al privato», si legge, «ha quel difetto, che non prende in considerazione l’egoismo assoluto»; secondo l’autrice, pertanto, non si può dare al «pubblico » ciò che è «di uso privato», non si possono «dare in pasto ai leoni i fattacci nostri e farli passare per arte» (p. 239). La definizione di poesia che la Rosselli dà in un’intervista del 1980 colpisce per la sua nitidezza: «è poesia secondo me riuscire a trasmettere questa esperienza del reale collettivo» (p. 40).
E in un’altra occasione, a distanza di pochi mesi, aggiungerà che «l’esperienza è unica perché è anche di altre persone» e che bisogna cercare «la parola che esprima gli altri» (p. 56). In questo Amelia Rosselli è una poetessa lirica: nel credere che, nonostante tutto, la sfera personale del singolo, dell’io, possa ancora avere per gli altri uomini un valore rappresentativo. Il lettore è così invitato a cercare, dietro le verità dell’io poetico, verità condivise. Come mostrano bene le raccolte Variazioni belliche e Serie ospedaliera, nei suoi testi la Rosselli vuole parlare della realtà e del mondo che abitiamo; il punto è che lo fa violando la lingua ordinaria e le sue regole, ricorrendo ad immagini visionarie o di natura allucinatoria, restituendoci, da espressionista, questa realtà e questo mondo deformati.
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