[Liguori, Napoli 2008]
Sepolto in una fossa comune, accanto al cadavere di qualche infame, Parini è restituito alla vita, nel noto carme foscoliano, proprio dalla scrittura. Forma, destino e funzione del soggetto poetico risorgono, si ricongiungono e ritrovano un’integrità in nome di una sacralità che la letteratura può ancora rifondare. La modernità primonovecentesca – ma il discorso ovviamente rimonta a Baudelaire – procede in direzione contraria a questo risarcimento, perché assume la perdita d’aureola come ormai consumata; in molti casi, forse nei migliori, ciò accade in modo sentimentale e umoristico anziché ingenuo, ovvero secondo una consapevole rielaborazione del lutto compiuta senza vittimismo, o nostalgia.
Tutto questo è stato spesso discusso e catalogato dentro le coordinate del senso della fine e della letteratura “postuma”: che viene cioè dopo la morte e, schiacciandosi tutta sul senso della perdita, da un lato evoca posture oracolari e lamentose poco accostabili ai dinamismi dell’ironia novecentesca; dall’altro lato rimanda a un concetto di linearità e di sintesi che le avanguardie – non solo il futurismo – semmai incendiano: per ricominciare, piuttosto che per finire.
È qui, nella proposta di questo insieme di motivi come prospettiva di lettura dominante, che vive uno degli aspetti più interessanti del libro di Antonio Saccone. Recuperando i famosi versi palazzeschiani come insegna dell’edificio abitato, oltre che dal poeta, dalla scrittura critica, l’autore batte da subito l’accento sulla vitalità paradossale del discorso letterario che sceglie – malgrado tutto c’è una scrittura che decide – di fare i conti con l’assenza di una funzione sociale riconosciuta o, per dirla in altro modo, con una disfunzione acquisita. Pirandello, Palazzeschi e Ungaretti sono gli autori al centro del libro, e ad essi sono dedicati i capitoli più belli; alle pagine sull’originalità dello stile si alterna, in reciproco dialogo, lo studio comparatistico (Ariosto e Cervantes per Pirandello; Dante, Petrarca, Gòngora, Leopardi, Bergson, Marinetti per Ungaretti), e una speciale attenzione ai testi saggistici che stanno dietro all’esercizio creativo.
A far da ponte tra le diverse opere è l’immagine del paradosso pronunciato dal fondo di un baratro. Che si tratti di qualcuno sepolto dentro una biblioteca, come nel caso del Fu Mattia Pascal, o sepolto, recluso in una villa, come il poeta palazzeschiano, o ancora sepolto sotto il mare, come il porto che dà il titolo alla prima raccolta ungarettiana, ogni volta c’è una memoria cancellata e riattivatasi in un «qui» che, piuttosto che il tempo e lo spazio, indica, per via di stacchi, l’essenzialità di un vuoto.
Gli ultimi due saggi del volume, dedicati a Rea e a Bassani, spostano la metafora del titolo su un piano più sociologico; ricostruendo il dibattito dell’epoca si cerca infatti di restituire attenzione e vita – operazione più che sensata, soprattutto per Bassani – a opere che le polemiche neovanguardiste contro l’ideologia del «romanzo ben fatto» avevano a suo tempo tentato di seppellire con un’esecuzione sommaria, usando categorie feticcio che in buona misura neppure la cultura della letteratura postuma potrebbe ormai difendere.
Lascia un commento