[ a cura di G. Celant, Fondazione Prada, Milano, 18 febbraio-25 giugno 2018. Catalogo a cura di G. Celant, Fondazione Prada, Milano 2018 ]
Il progetto dal curatore della mostra Germano Celant è ambizioso: tentare «una ricostruzione quasi antropologica della produzione artistica e del suo apparire in Italia nell’arco temporale tra il 1918 e il 1943», per andare «contro la decontestualizzazione espositiva, con la sua pratica d’isolamento, funzionale solo all’ubiquità del valore mercantile, per cui l’arte si tramuta in prodotto e in economia» (pp. 556 e 557). Questo intento totalizzante si realizza attraverso la scelta fondativa della mostra: le opere d’arte sono collocate in maniera da restituire, attraverso rendering fotografici e accostamenti originari di opere, il contesto espositivo dell’epoca. Le sale della Fondazione mimano così pareti di mostre, sale di museo, gallerie, studi d’artista e abitazioni private, contestualizzando ulteriormente le opere grazie a un ricchissimo apparato documentario: fotografie, riviste, volumi, lettere, documenti d’archivio testimoniano le relazioni intellettuali e personali costitutive di quel sistema delle arti.
Rispetto ai percorsi espositivi di un museo tradizionale, è percepibile lo spostamento «verso una storia reale e contestuale» (titolo del saggio introduttivo del catalogo); temo però che al visitatore comune – chiunque, cioè, non fosse uno specialista di storia culturale tra le due guerre – non siano stati forniti gli strumenti per una vera e propria «ricostruzione […] antropologica» dell’arte di quei decenni. In sala non era presente altra informazione che una parca cronologia, e la straordinaria quantità di opere e documenti non era illustrata a sufficienza dall’esile guida della mostra; nessuna indicazione, inoltre, su chi fossero i numerosissimi personaggi – artisti, intellettuali, politici, organizzatori di cultura – rappresentati nelle fotografie, firmatari di documenti, autori, acquirenti o critici di opere d’arte.
La mostra permette comunque una ricchissima esplorazione dell’arte dell’entre-deux-guerres, individuandone come tratti fondamentali non solo l’intreccio tra politica e cultura, ma anche l’interazione strettissima tra arti “pure” e “decorative”. Il sistema delle arti sotto il fascismo, infatti, è abitato dall’utopia dell’arte totale: non solo nel senso della «ricostruzione futurista dell’universo», uno dei germi del design italiano (dalle sperimentazioni ancora “Arts & Crafts” della Casa d’Arte di Depero al design industriale consacrato dalle Triennali di Milano negli anni Trenta), ma anche in una accezione urbanistico-architettonica che ha prodotto un continuo e fecondo interscambio tra gli architetti e gli artisti incaricati di progettare per edifici e spazi urbani murales, affreschi, mosaici e interior design straordinariamente moderni e raffinati. Un sistema delle arti totalizzante e interconnesso che trova la sua apoteosi nelle grandi mostre propagandistiche degli anni Trenta, sia storicamente, sia nel percorso espositivo, diviso in due dalla sala dedicata alla Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932: allestimenti straordinariamente moderni non solo tecnicamente, per l’uso di collage, fotomontaggi, tipografie creative, soluzioni architettoniche razionaliste, ma anche per l’esplicito obiettivo di creare esposizioni narrative ed emozionali. L’immagine della politica culturale fascista che emerge da Post Zang Tumb Tuum è quella di un sistema complesso ma sostanzialmente modernizzatore e modernista, capace, fino al cambio di passo a seguito della guerra d’Etiopia, di fare dell’arte un instrumentum regni senza obbligare gli artisti a scelte specifiche di contenuti o stili. Si tratta di una caratterizzazione del fascismo ormai accettata tra gli studiosi, forse non ancora abbastanza diffusa nella percezione comune: anche perché, come scrive Mario Isnenghi nel saggio conclusivo del catalogo, «certe cose che il fascismo ha detto di sé – non elementi collaterali, ma criteri costitutivi, autorappresentazioni chiave – non le abbiamo volute, a lungo, prendere sul serio, sentendoci più antifascisti per questo» (p. 593).
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