Negli ultimi dieci anni il movimento della narrativa italiana nel suo complesso ha conosciuto mutamenti significativi, effettuando scelte figurali spesso contrapposte alle tendenze che avevano segnato il quindicennio precedente. Siamo in presenza di un diffuso rinnovamento categoriale, all’interno del quale è forse possibile individuare il primato di alcune specifiche costanti: scelte formali, strutturali e linguistiche che accomunano autori anche molto diversi per età, gusto, orientamenti di poetica – e che sembrano reagire, più o meno criticamente, e con diversi livelli di consapevolezza, al processo di mediatizzazione che investe ormai tutti i linguaggi dell’arte, e che pone la letteratura in una condizione di particolare imbarazzo. In questo panorama ancora in evoluzione particolarmente interessanti risultano le trasformazioni che dalla metà degli anni Novanta riguardano il tempo del racconto, le tecniche di montaggio, la scansione modulare del testo.
Il romanzo italiano, o buona parte di esso, si abitua alla velocità, alla frammentarietà, alla performatività; abbandona i modelli linguistici della tradizione letteraria; rinnova in senso enfatico e teatrale i propri temi; rinuncia, spesso, alla esposizione lineare e tradizionalmente narrativa degli eventi per approdare a esiti centrifughi, ellittici, a volte trans-testuali. La catastrofe formale che ne deriva da un lato allontana il baricentro del romanzo dai parametri del racconto postmoderno italiano degli anni Settanta e Ottanta; dall’altro prepara il terreno per quello che pare il luogo privilegiato dalla nostra ricerca narrativa attuale – la messa a punto, tra fiction e non fiction, di nuovi effetti di reale, capaci di rappresentare in modo organico un presente impastato di irrealtà.
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