[ Villaggio Maori, Catania 2016 ]
Si può ancora “usare” Antigone? Non solo studiarne il mito o discutere il testo della tragedia di Sofocle e le sue innumerevoli riscritture moderne, ma, a partire dal nostro presente, riconoscerne e interrogarne i punti ciechi e riattivarne le domande fondamentali? Il libro che Elena Porciani dedica ad Antigone nel Novecento e oltre si pone questa domanda e risponde ad essa costruendo una riflessione appassionante, che incrocia letteratura, teatro, filosofia e teoria femminista e si tiene lontana dalle secche di molti studi di ricezione del mito nella modernità. Partendo dall’evidenza che quello della principessa tebana è probabilmente il mito che più frequentemente scrittrici e intellettuali hanno rivisitato nel corso del ventesimo secolo in cerca di una “sororità”, per usare il termine di Maria Zambrano che Porciani riattiva con intelligenza, il volume esplora Antigone e alcune delle sue “disambientazioni” novecentesche in un orizzonte di genere. Secondo l’autrice, infatti, Antigone offre ancora «un’occasione per riflettere sul superamento degli stereotipi patriarcali che hanno governato il rapporto fra privato e pubblico, fra etico e politico, nell’esperienza femminile» (pp. 6-7): con un gesto critico illustrato nell’introduzione, Porciani recupera così la sagoma dell’Alice “disambientata” di Celati per provare a spostare Antigone da Tebe agli «scenari contemporanei segnati dalla guerra, dalla violenza e dalla violazione dei diritti» (p. 8). Questo non significa semplicemente catalogare le più recenti attualizzazioni che del testo sofocleo sono state fatte, ma ragionare anzitutto attorno al nucleo figurale e performativo del personaggio: le relazioni semantiche e simboliche che Antigone innesca nei casi migliori risultano bidirezionali, cioè orientate sui due assi del tempo, per cui il personaggio originario di Sofocle genera immaginario e materiali simbolici dislocati in contesti lontani nel tempo che, a loro volta, si riverberano su quella matrice iniziale. La teoria del performativo elaborata da Erika Fischer-Lichte fornisce a Porciani un preciso sfondo concettuale, che conferisce al libro un andamento circolare, fatto di continui allontanamenti e riavvicinamenti al testo di Sofocle. In questo modo rigore filologico e profondità teorica vengono tenute insieme: lo spirito militante del libro non solo non sacrifica mai l’individualità del testo-matrice e delle sue riscritture in nome di astrazioni concettuali o prese di posizioni politiche, ma supera anche la contrapposizione sterile tra gli uni e le altre, offrendo dunque una preziosa lezione di metodo.
Dopo un’introduzione che chiarisce l’impostazione e gli intenti della studiosa, il libro si snoda in quattro capitoli: il primo, di taglio propedeutico, ripercorre alcune delle tappe della ricezione moderna di Antigone; il secondo ingaggia un corpo a corpo con alcuni nodi tematici essenziali del testo di Sofocle, che diventano la mappa di riferimento per orientarsi nel vasto campo di riletture di genere di Antigone; è restando proprio al centro di questo campo che il terzo capitolo analizza quello spostamento cruciale dal materno al politico che alcune importanti interpretazioni femministe di Antigone registrano; l’ultimo capitolo rilegge le Antigoni “disambientate” di Yourcenar, Cavani, Zambrano, fino ai più recenti Motus, Parrella, e Gaudino, in un dialogo supportato da un solido quadro teorico. Sono soprattutto gli ultimi due capitoli ad avanzare una proposta originale basata sull’idea di una «solidarietà» tra due dei tratti fondamentali di Antigone: la sua eccentricità – Antigone è una meteca, una outsider – e la philia. Prendendo con nettezza le distanze dalle derive di una teoria femminista impegnata a inseguire il “materno” – non si risparmiano critiche sostanziali a Cavarero – e sulla scorta di molteplici acquisizioni critiche e teoriche – Woolf e Butler tra le altre – Porciani ci restituisce una Antigone paradossalmente viva, non più vittima sacrificale ma soggetto capace di agire per la comunità.
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