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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Jonathan Safran Foer, Eccomi

[ trad. it. di I.A. Piccinini, Guanda, Parma 2016 ]

Dopo undici anni dall’uscita di Molto forte, incredibilmente vicino, Jonathan Safran Foer pubblica Eccomi, uno dei romanzi più fortunati del 2016, accolto da un quasi unanime plauso da parte della critica americana. È la dialettica tra piano privato e orizzonte collettivo a essere in gioco in questo romanzo: l’orizzonte pubblico è costantemente schiacciato da un universo evenemenziale in cui gli eventi sono filtrati da media o racconti di secondo grado. La fine dell’universo privato del protagonista sembra estendersi fino a comprendere la fine del mondo, in un equilibrio in cui i grandi valori universali soccombono sotto il peso della quotidianità e dell’inazione.

Jacob e Julia Bloch vivono a Washington con i loro tre figli: Jacob è uno scrittore per la televisione insoddisfatto, mentre Julia è architetto, ma si occupa soprattutto di Sam, Max e Benji e del vecchio cane Argo. I Bloch, pur non essendo praticanti, rispettano le antiche tradizioni ebraiche e ricevono a Washington i cugini da Israele, giunti per assistere al Bar Mitzvah del piccolo Sam. Nel matrimonio borghese di Jacob e Julia è insinuata l’ombra della distruzione: silenzi, un potenziale tradimento, la fine del desiderio. In questo contesto familiare in precario equilibrio si innesta l’evento che scuote la trama: un terribile terremoto in Medio Oriente che incrina i rapporti tra Israele e gli stati confinanti. Eppure questo evento rimane sullo sfondo, perdendo qualsiasi dimensione epica: il terremoto non è mai narrato direttamente, possiamo solo avere accesso alle narrazioni televisive. Il terremoto, assente, evocato, circondato da una continua lacuna, crea un effetto di frustrazione che riempie il racconto, avvicinando l’atmosfera del romanzo alle pagine più riuscite di Franzen. Siamo costretti a spiare dalla serratura, come accade con la figura del cugino israeliano perennemente impegnato nel tentativo di stabilire una connessione telefonica con la terra in cui la tragedia sta avvenendo, inaccessibile e distante.

In un crescendo di opinioni televisive e di furenti post sui blog nazionali, Foer fonde l’impossibilità di comprendere con l’incapacità di prendere parte e di decidere. Jacob non decide di salvare Israele imbarcandosi, non abbraccia un ideale e non affronta il fallimento del suo matrimonio. Un matrimonio consumato da un tradimento mai avvenuto, solo mimato da una chat a sfondo erotico con cui si aprono le prime pagine del romanzo. L’immobilità di Jacob ne avvolge la dimensione pubblica e quella corporale, come in una imitazione di vita che non riesce mai a compiersi. La finzione risucchia al suo interno tutte le strutture politiche, come nella scena in cui i figli del protagonista simulano una riunione delle nazioni unite, riducendo questioni come la guerra e il nucleare a un gioco, una scaramuccia tra ragazzi nel clima di una gita fuoriporta. In questo contesto di distruzione familiare “morbida” nulla si salva, neanche la figura di Isaac, il patriarca: padre di Jacob e simbolo morale della fuga ebraica dall’Europa, decide di rinunciare a qualunque ruolo di guida suicidandosi.

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