[ Donzelli, Roma 2016 ]
In una conferenza del 1931 Virginia Woolf racconta la storia della sua vocazione letteraria come una lotta contro una creatura immaginaria, l’Angelo del focolare: la conquista dell’autonomia di scrittrice avviene attraverso l’uccisione di questa figura, retaggio della cultura vittoriana. Creazione e aggressività si trovano dunque strettamente associate, non solo su un piano universale, ma anche nel concreto delle condizioni in cui è avvenuta la presa di parola delle scrittrici. Su questo esempio folgorante Anna De Biasio conclude il suo eccellente lavoro sulle rappresentazioni della violenza femminile nella letteratura americana tra Otto e Novecento. Nelle ultime pagine del libro, che spaziano, in maniera sintetica ma efficace, dalle liriche violente di Sylvia Plath al sadismo di Joyce Carol Oates, si misura l’importanza di questo studio: l’esplorazione del tema della violenza femminile rappresentata disinnesca il binarismo che separa le identità di genere e ci conduce in una zona cruciale dell’immaginario contemporaneo. Nell’introduzione del libro De Biasio definisce con chiarezza il perimetro teorico e culturale entro cui si muove: le donne rappresentate come soggetto di violenza sono state polarizzate tra l’estremo della parodia e quello della patologizzazione. Allo stesso modo, il discorso critico su queste rappresentazioni oscilla tra emancipazionismo entusiasta da una parte (una donna violenta in un film o un romanzo è una conquista culturale) e intransigente critica anti-patriarcale dall’altra (una donna violenta è espressione di fantasie maschili, misoginia o riproduzione acritica di dinamiche del potere patriarcale). Se il primo polo rischia di disinnescare la complessità della violenza femminile rappresentata, il secondo finisce per non riconoscere alle donne soggettività piene, agenti e capaci di impulsi distruttivi, rispingendole nel recinto di un femminile essenzializzato, in linea con i più vieti stereotipi di genere. De Biasio affronta brillantemente questo stallo critico, sottraendosi tanto alle rigidità di un certo discorso femminista quanto allo scarso senso della complessità di una critica culturale superficiale: la violenza diventa dunque un «dispositivo utile a ridefinire le identità di genere e la loro costruzione simbolica, la mobilità del maschile e del femminile e non solo la loro cristallizzazione in stereotipo» (p. XI).
Il volume si compone di cinque capitoli che analizzano punti ciechi e ambivalenze di un ampio corpus: si comincia con gli scritti di Margaret Fuller, intellettuale e giornalista che sostenne le guerre d’indipendenza italiane e difese l’uso della violenza; il fantasma di Fuller abita alcune figure dei romanzi di Hawthorne – ridiscusse nel secondo capitolo – in particolare la Zenobia di The Blithedale Romance, la cui rabbia, ormai depoliticizzata, diventa via di accesso alla sfera maschile; il terzo capitolo si concentra sulla figura e le opere di Louise May Alcott, che persino nel suo Little Women tratta con serietà gli impulsi distruttivi delle donne, la cui “docilità” appare frutto di costruzione e non essenza naturale del femminile; il quarto capitolo propone una raffinata lettura di The Other House di Henry James, storia di un infanticidio sconcertante, commesso da una donna che rimane impunita; l’ultimo capitolo esplora una zona del canone femminile della letteratura americana della Grande Guerra.
Il merito maggiore di questo libro è quello di dimostrare come gli studi di genere e la critica testuale non siano sfere incompatibili: De Biasio ha una straordinaria capacità di analisi del testo, dei suoi tropi, delle sue strutture e anche delle sue trappole ed è sondando il testo che sa restituire al lettore le ambivalenze ideologiche e simboliche che abitano questo corpus. L’idea che il cosiddetto specifico letterario esca mortificato dall’uso di metodi di taglio culturale – ancora molto diffusa in Italia – è del tutto neutralizzata: stile, figure e dispositivi narrativi sono i più potenti mezzi di decostruzione delle identità di genere.
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