[ a cura di V. Cuccaroni, prefazione di N. Lorenzini, Pendragon, Bologna 2016 ]
Prefato con partecipazione da Niva Lorenzini, Critica del nonostante raccoglie saggi che Guido Guglielmi ha pubblicato sparsamente tra il 1997 e il 2002. Ne è venuto fuori un vero libro, coerente sia per gli oggetti, sia per la costanza del metodo e dello stile, sia per la costruzione che Valerio Cuccaroni, il curatore, gli ha dato: un Viatico introduttivo, una serie di Critica e teoria che è il cuore del volume, una di Piani di analisi dedicati a Svevo, Joyce, Beckett, Volponi. Ne è risultato un compendio delle questioni più dibattute in quegli anni: lo statuto della critica, nella cui necessità occorre credere nonostante – appunto – la sua crisi; l’ermeneutica; la teoria della ricezione; il postmoderno; il canone. Chi lo ha conosciuto sa che Guglielmi era molto curioso del presente; lo sottoponeva però a un giudizio così severo da passarne sotto silenzio, quando scriveva, i nove decimi. Aveva la certezza di una cultura abituata a muoversi solo fra i massimi. Come è l’opposto del giornalista, condannato a perdersi dietro novità senza numero, così Guglielmi è l’opposto dell’erudito, filologicamente innamorato degli ignoti e dei dimenticati. Il suo canone è strettissimo. Un indice dei nomi di questo volume, come dei suoi altri, occuperebbe giusto qualche colonna: metterebbe in imbarazzo tutti i criteri bibliometrici e le schede da peer review, svelando il segreto di un pulcinella nietzscheano che meno libri si leggono, meglio si pensa. È questa estrema economia, tradotta in uno stile atticista fatto di paratassi, brevità, concentrazione, salti fulminei, a consentirgli un’eccezionale profondità e acutezza. Le nemmeno venti pagine dell’Autore come consumatore, che riflettono su postmoderno, modernismo e avanguardia, valgono più di interi volumi: vedono la discontinuità e la continuità fra età culturali e poetiche, le leggono a contropelo, scoprono la logica nascosta dei fenomeni (il postmoderno, mentre si rivolta all’avanguardia, la porta a compimento degradandola).
Guglielmi è anche uno storico e un teorico; ma prima di tutto, un saggista. Per lui si tratta sempre di guardare al contenuto di verità dei testi e di andare alle questioni decisive, con un’assertività tanto più stupefacente perché sa tornare sui propri passi e lascia aperto il discorso. Ci sono critici che tendono a risolvere e conciliare; Guglielmi tende invece a definire epigrammaticamente, per portare allo scoperto le contraddizioni insanabili nella forma del paradosso o dell’antinomia. Lo muove spesso l’amore del rovesciamento (uno dei suoi moduli distintivi è: vale questo, ma anche il suo opposto); e perciò ragiona post-dialetticamente. Sempre pronto a mettere in dialogo posizioni e autori, Guglielmi sa pure che quel che conta va ricavato da quel testo e da quell’autore: generalizza per epoche e per temi, ma insieme difende la mathesis singularis di chi si occupa di letteratura, e non di filosofia. Scrive nella «ricerca della verità» perché nella verità crede; ma la sa così plurale, così abitata dagli opposti, così interminabile da non essere mai tentato di trasformarla in una dottrina.
Sino alla fine, Guglielmi è un pensatore della modernità; e la modernità – dice – non è conclusa perché non può esserlo il suo progetto. Certo, ha scritto pagine memorabili sull’avanguardia; eppure i suoi giudizi di valore, le sue simpatie di poetica e le sue riflessioni di teorico testimoniano un fermo credo modernista, estraneo a compromessi populisti e sdegnoso di fronte alla sorridente arroganza dell’industria culturale. Questo fa di lui un uomo del passato; ma insieme, in questi anni in cui il paradigma postmoderno si è sgretolato e di modernismo italiano ed europeo si discute tanto spesso, lo conferma come un nostro contemporaneo e, anzi, come qualcuno che andrebbe letto più di quanto si faccia.
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