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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Alejandro González Iñárritu, Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza)

[USA 2014]

Con una politica che ricorda i piani quinquennali sovietici, dall’inizio del nuovo secolo le grandi case di produzione hollywoodiane hanno riempito gli schermi di fumetti DC e Marvel, e continueranno in questa loro impresa almeno fino all’inizio del prossimo decennio (il 19 giugno 2020 uscirà Green Lantern Corps). Questa ossessione industriale è messa alla berlina in Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza), diretto da Alejandro González Iñárritu, che in un’intervista l’ha definita un «cultural genocide». Riggan Thomson (come il suo interprete Michael Keaton) negli anni Novanta ha ottenuto la fama grazie a un supereroe, Birdman. Inattivo da molti anni (ha rifiutato le proposte di un quarto episodio della serie e di un reality show), decide di mettere in scena a Broadway un suo adattamento del racconto Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver.

Broadway e Hollywood hanno sempre avuto una relazione difficile. Il cinema americano ce la racconta dai tempi del muto. Broadway significa arte, Hollywood intrattenimento. Broadway dà prestigio, Hollywood popolarità. Come dice a Riggan Mike Shiner (Edward Norton), l’affermato attore con cui recita nella pièce, «la popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio». Questo Riggan lo sa bene, dal momento che per realizzare al meglio il suo spettacolo, quello che dovrebbe permettergli di conquistare la forma più nobile di riconoscimento sociale, è disposto a mettere un’ipoteca sulla sua casa di Malibu. Durante le prove, però, si rende sempre più conto delle difficoltà dell’operazione; non tanto per il confronto con il talento di Mike, quanto per la stroncatura preventiva che gli annuncia Tabitha Dickinson (Lindsay Duncan), il critico teatrale del «New York Times», incontrata per caso in un bar. Riggan si accorge di muoversi in uno spazio più strutturato di quanto pensasse, uno spazio al quale si accede solo con l’habitus adeguato. Altrimenti bisogna affidarsi a un drappello di sceneggiatori inclini all’umorismo nero, come in questo caso (Iñárritu, Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris, jr. e Armando Bo).

Prove disastrose, conflitti con la figlia ex tossicodipendente (Emma Stone), scenari economici preoccupanti: Riggan è disperato. Nella scena finale della prima decide di usare, per il suicidio del suo personaggio, una pistola vera. Dickinson, estasiata, vede in quel tentato suicidio (l’attore si è “solo” sparato via il naso) un nuovo modello recitativo («super-realismo») ed elogia l’interpretazione di Riggan. Lo scandalo suscitato in sala si diffonde in rete e l’attore diventa popolarissimo nei social media. Ottiene così una duplice, improbabile consacrazione. Nella stanza dell’ospedale in cui è ricoverato vediamo Birdman (la personificazione del suo desiderio di tornare a Hollywood, che aveva fatto più volte incursione nel racconto). È seduto in bagno, probabilmente in attesa che questo momento di gloria finisca e si ristabiliscano le severe regole del gioco artistico.

Regole che Iñárritu conosce bene. Anche in questo film esplora virtuosisticamente un aspetto formale. In 21 grammi e Babel era la struttura del racconto, qui il montaggio, che ha apparentemente eliminato. Apparentemente, perché Birdman non è il frutto di un’unica lunga ripresa come Arca russa di Sokurov o il recente Victoria di Sebastian Schipper, ma una serie di piani-sequenza combinati attraverso la tecnologia CGi. Certo, un lavoro di complessa realizzazione, che però non crea un rapporto originale tra personaggi e macchina da presa: le inquadrature sono tutto sommato convenzionali. Birdman, così, rassicura lo spettatore mainstream e lo gratifica con dei virtuosistici movimenti di macchina. Scelte molto apprezzate a Hollywood: i quattro Oscar sono lì a testimoniarlo. Uno di questi è ovviamente andato al direttore della fotografia e operatore di ripresa Emmanuel Lubezki, il supereroe in questa satira sui supereroi.

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