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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Fabio Pusterla, Argéman

[ Marcos y Marcos, Milano 2014 ]

«[E]ccola qui improvvisa […] / leggere smeraldina la libellula / in sospensione sull’aria / e quasi immota nel frusciare imperscrutabile / delle sue quattro ali di garza iridescente, / intarsiate. […] / metamorfosi / in corso o indecifrabile / annuncio di qualcosa, messaggera / dei cieli e degli stagni, / qui e là, sopra e sotto, davanti, / sempre, davanti / o tutt’intorno a noi» (p. 201): la libellula è l’animale-guida scelto da Fabio Pusterla per accompagnare e guidare il lettore nella «stagione strana / imprevedibile» (p. 11) di Argéman. Figura para-testuale che, simile all’armadillo in Corpo stellare (2010), compare nella copertina e nel corpo del testo pusterliano, la libellula è un animale propriamente poetico. Di etimologia incerta, “libellula” potrebbe derivare dalla parola latina libellus, un ‘piccolo libro’, che, come il liber catulliano, sembra essere levigato con la ruvida pietra pomice. Nella lirica che chiude il volume, intitolata, cavalcantianamente, Congedo («Libellula gentile / vola / fatti veloce»), la libellula prende le forme della poesia («Dopo, tocca ogni cosa / sillaba bene il suo nome / e falla vera»), diventando testimone di coloro i quali hanno perso «la voce» (p. 213).

Diviso in quattro sezioni (Opposizioni, sovrapposizioni; Argéman; Lungo il cammino; Il volo della libellula), aperto e chiuso da un Annuncio ai viaggiatori e da un Congedo, alternanti poesia e prosa (Lungo il cammino), Argéman («termine dialettale che indica le lingue di neve o di ghiaccio […]; anche una valanga e i suoi resti appunto», p. 219) procede lungo l’orizzonte sotteso dal leggero moto della libellula e dalla speranza che scaturisce dai «residui» (p. 87) che la «lingua / di neve incomprensibile» dell’«argéman» (p. 95) lascia nel «movimento che l’ha condotta a valle, frana o slavina, distruzione, catastrofe», come ricorda Pusterla in una intervista realizzata da Cristiano Poletti.

Argéman si sviluppa a partire da questa ambivalenza tra vita e morte, tra speranza e sconfitta. In questo senso, Argéman si presenta come una poesia della r-esistenza, dove la libellula agisce come figura etica della salvezza e come specchio del pensiero dissonante dell’uomo. Seguendo il ritmo incessante della libellula, il poeta traccia delle geometrie e simmetrie imprevedibili che potrebbero svelare nei «solchi profondissimi di nero» (p. 213) «l’ultima povera luce del giorno / quasi distribuendo / agli occhi che hanno voglia di guardare / un obolo di sole un po’ di forza» (p. 209).

Correlativo della speranza, la libellula è chiamata quindi a rispondere alla filosofia negativa della storia, che nel suo incedere imperante e indifferenziato («da lago / verso lago, da mar morto a mar morto, lontano / lingue di fuoco e muri chiudono i territori / feriti, in una bolla d’esclusione. Ciascuno / conta i suoi morti qui, / le sue vergogne», p. 166) ha spezzato i legami tra uomo e uomo («quello che c’era prima o che poteva / eventualmente esistere, un progetto o una speranza / ora inimmaginabili. La perdita / di ciò che non sai più di avere perso», p. 94), svuotando la parole di ogni significato etico e conoscitivo («Quasi illeggibili ormai le parole. Vi si arriva / seguendo crosci d’acqua misteriosi, scale nere / consunte, e ogni svolta un cunicolo che vaga / nel silenzio di un muro o di una tenebra / analfabeta e muta», p. 44).

Il volo irregolare della libellula attraversa senza soluzione di continuità il tessuto paratestuale e testuale del libro. Sebbene «[d]al mare / affior[i]no oggi soltanto cadaveri gonfi» e i «potenti signori» possano «dire parole di fumo impuniti / parlare del destino / canticchiare» (p. 52), la discontinuità del moto della libellula (e così della poesia) «schiude / un’altra più segreta geometria» (p. 201), mostrando come questa «musica incerta» (l’irregolarità dell’essere) «accomuna / forse» e rende «uguali» l’uomo e la libellula in questa: «[q]uasi uguali / e diversi», sottolinea amaramente Pusterla come «ultimissima cosa» (pp. 209-210), ma pur sempre forme discontinue della storia.

 

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