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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Eric J. Hobsbawm, “La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi di identità”

[trad. it. di L. Clausi, D. Didero, A. Zucchetti, Rizzoli, Milano 2013]

 

È difficile comprendere a fondo l’ultimo libro di Eric Hobsbawm se non si considera la peculiarità del suo approccio marxista, nato, come lui stesso ha suggerito nell’autobiografia Anni interessanti (2002), da un tentativo di capire «le arti» e il loro posto nella società, e non dall’interesse «per i classici problemi macrostorici» basati sulla «successione dei modi di produzione». Questo particolare sguardo sulla società ha caratterizzato l’intera opera dello storico inglese e ha costituito uno degli assi portanti della sua ricerca. Non sorprende pertanto che anche nei ventidue saggi qui riproposti, scritti in un arco temporale di quasi cinquant’anni (il primo risale al 1964, l’ultimo al 2012), Hobsbawm guardi alla crisi del mondo contemporaneo, che definisce «un’epoca della storia che ha perso l’orientamento», attraverso i mutamenti avvenuti in campo artistico e culturale.

La raccolta concentra l’attenzione sia sulle nuove forme di espressione artistica nell’era della globalizzazione, sia sull’esiguo spazio che oggi resta alla cultura del passato, soprattutto nelle sue forme più elevate; ma riflette ampiamente anche su moltissimi altri aspetti dell’arte e della cultura contemporanee: dal ruolo degli intellettuali a quello della scienza; dai rapporti tra arte e politica alla pop art; dall’emancipazione femminile al ruolo delle religioni; dal fallimento delle avanguardie alla “tradizione inventata” del cowboy americano, a cui è dedicato l’ultimo, originalissimo, saggio del libro.

L’analisi di Hobsbawn prende avvio da una tesi già esposta in L’età degli imperi, terzo volume della celebre trilogia dedicata al XIX secolo, dove si afferma che il 1914 segna una profonda rottura nella storia europea, poiché rappresenta la fine della civiltà creata «da e per la borghesia» nata dalla rivoluzione francese. Questa civiltà, basata su valori prodotti da una ristrettissima élite che, se pur progressista e intenzionata ad allargare le sue basi non è mai riuscita a uscire dallo spazio separato che si era riservata, implode sotto i colpi inferti da tre potentissime forze generate al suo stesso interno: la rivoluzione scientifica e tecnologica del Novecento, che ha totalmente mutato le tradizionali modalità con cui ci si guadagnava da vivere; la società dei consumi di massa, generata dall’esplosione delle potenzialità delle economie occidentali; e da ultimo l’ingresso delle masse sulla scena politica. Questi sviluppi hanno creato una società in cui è stato abbattuto «il muro tra cultura e vita, tra venerazione e consumo, tra lavoro e tempo libero, tra corpo e spirito», determinando lo svuotamento del ruolo privilegiato riservato alle arti nella vecchia società borghese. Nel nostro mondo l’esperienza estetica si dissolve, e la cultura «criticamente valutativa» dell’accezione borghese «lascia il posto alla cultura nel significato antropologico puramente descrittivo».

Si tratta di libro complesso, dalla struttura frammentata, in cui, considerato l’ampio spazio temporale che separa tra loro i saggi, lo sguardo dell’autore sulla società evolve insieme ai mutamenti oggetto delle sue riflessioni, nate spesso in modo occasionale (dalla partecipazione a un festival alla scrittura di una recensione); è pertanto impossibile trovare la continuità della grande narrazione a cui Hobsbawm ci aveva abituati. La frammentarietà dell’analisi riflette però quella di un mondo che fatica a trovare la sua strada e che guarda avanti «senza una guida e una bussola, a un futuro inconoscibile».

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