James Joyce, “Ulisse”, nella traduzione di G. Celati
[trad. it. di G. Celati, Einaudi, Torino 2013]
Con quattro traduzioni integrali (tre in commercio e una pirata e misteriosa, rintracciabile solo in qualche biblioteca), l’Italia è uno dei paesi con più traduzioni di Ulysses (1922) di James Joyce. E questo nonostante la prima (di Giulio De Angelis, 1960) abbia impiegato circa quarant’anni a vedere la luce. O forse è anche il ritardo di questa prima e monumentale traduzione “autorizzata” a far sentire la necessità della riscrittura più di quanto accada altrove. Dopo l’edizione di Enrico Terrinoni (2012) – preziosa e attenta alla cultura irlandese – in marzo è stato pubblicato l’Ulisse di Gianni Celati. La nuova traduzione di un classico è un’occasione per sondare non solo nuove scommesse ermeneutiche, ma anche per domandarsi i motivi – oltre a quelli ovvi della fine dei diritti d’autore – che hanno portato alla pubblicazione stessa.
Alcuni sembrano antichi: i tentativi di far tradurre Ulysses da uno scrittore (Montale, Pavese, Vittorini, Pizzuto, tra gli altri) risalgono agli anni Venti; l’idea che solo un altro scrittore possa confrontarsi con il libro monstrum del modernismo comporta conseguenze di vario segno nell’opera di Celati che, al contrario di Terrinoni e come il primo De Angelis, non prevede alcuna nota, se non una rapida prefazione. Non è certo se questo possa liberare il libro da glosse troppo invadenti, ma è chiaro quanto la scelta informi la strategia traduttiva generale: la via che spesso si sceglie è difatti quella della postilla interna al testo, efficace alle volte, ad esempio nei riferimenti alla storia irlandese o alla topografia di Dublino, più legnosa in altri casi, come quando si rinuncia a ricreare calembour, spiegandoli e provocando un effetto al contempo defamiliarizzante (il lettore non dimentica mai che si tratta di un testo straniero) e rassicurante. È una scommessa temeraria, che porta con sé il rischio della riuscita sorprendente (come in alcune pagine di Nausicaa, e in generale negli episodi finali) ma anche l’intoppo dell’eccessiva semplificazione che in un romanzo del genere può portare a un generale senso di smarrimento. Quando Molly non capisce i paroloni di Bloom e gli domanda «Who’s he when he is at home?», Celati rende con un azzardato «Cosa vuol dire in parlar da cristiani?» che sembra gettare anche su Molly l’ombra di quello strisciante (e talvolta roboante) pregiudizio antisemita che investe Bloom per tutta la giornata del 16 giugno 1904. Un effetto simile lo provocano i ritorni dei Leitmotive, che molto spesso non vengono rispettati e impediscono ai lettori italiani di ricostruire quella trama di allusioni e riscontri che rende il testo un continuo riciclo di temi, un ripetuto e inevitabile incontro con versioni appena diverse di se stessi.
È con questa lente che Celati trova in Ulysses un flusso disordinato di parole all’interno del quale «la musicalità è l’aspetto decisivo»: un partito preso estetico forse opinabile se si considerano la maniacalità di Joyce nella scrittura e le frequenti e ricercate cacofonie, ma che certo lega la traduzione a un uso sensuale della parola. Così la lingua è variegata da voci desuete, regionali, arcaiche (il burro sfrigolante di Bloom «sguilla» invece di scivolare), che ricreano un Joyce spesso perfino più gaddiano e oscuro, e che per questa via provano forse a riportare la difficoltà e l’alterità del testo originale anche nella riscrittura. In questo senso, lo scrittore Celati trova molti punti di contatto con De Angelis e il tentativo toscaneggiante del primo traduttore si rispecchia deformato in una certa padanizzazione di quest’edizione.
Sia Terrinoni sia Celati hanno provato a proporre un Ulysses libero da incrostazioni accademiche in modi, e con esiti, molto diversi: il primo con un apparato più discreto e con attenzione alla lezione di democrazia inscritta nel testo, il secondo privilegiando il “disordine” delle parole e il flusso musicale. Ed è forse questo il dato più significativo che hanno in comune le nuove traduzioni di Ulysses: l’obiettivo democratico di far arrivare un testo difficile e famigerato a un pubblico il più possibile plurale.