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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Guido Guglielmi, Una scienza del possibile. Studi su Leopardi e la modernità

[Manni, Lecce 2011]

Nella prima metà dell’Ottocento ha luogo una rivoluzione antropologica, che conduce alla nascita dell’individuo moderno, proiettato non più nella sfera pubblica e sociale, ma in quella individuale e privata. Un simile smottamento d’assetto, che comporta una ricerca della verità e del senso non più garantita da ruoli e istituzioni, apre un ventaglio maggiore, e terrificante, di possibilità, e impone all’io di confrontarsi con i concetti di assoluto e infinito. Il giovane Benjamin, nella sua tesi di laurea sul Concetto di critica nel romanticismo tedesco, aveva perfettamente colto il punto, tanto da leggere Novalis e Friedrich Schlegel unicamente nel loro rapporto con l’entità trascendente, e nel loro tentativo di cogliere ciò che è al di là dei limiti del contingente.

Guglielmi, in questi saggi leopardiani redatti tra il ’96 e il 2002, parte proprio da queste problematiche (inizio Ottocento, soggettività e infinito, Benjamin). In opposizione ad un certo ottimismo imperante (che pervase anche Ludovico Di Breme), e con un tempismo e una lucidità eccezionali, Leopardi colse la rivoluzione culturale in atto, indicando nella ragione non la via del miglioramento, ma lo strumento che uccise, senza possibilità di ritorno, le favole antiche, e nella verità non un innalzamento dell’uomo, ma solo un ulteriore passo verso il nulla. Sicché, privato dell’immaginazione produttiva e delle «favole che non erano come presso i moderni invenzioni di poeti o ornamenti di letteratura, ma animavano popoli e civiltà» (p. 145), ma non spogliato della tensione verso la ricerca del senso, l’uomo leopardiano si trova ad essere condannato a un costante ed irredimibile senso di mancanza (la penia platonica), da cui scaturisce un altrettanto inappagabile desiderio di piacere: un piacere svincolato dall’oggetto, ovvero talmente illimitato e infinito da rendere l’assoluto il naturale orizzonte dell’uomo moderno.

Un orizzonte, però, mai raggiungibile e riconducibile a sé, poiché la parola umana, in quanto finita, è sempre inadeguata e deficitaria nei confronti del trascendente: l’infinito pertanto si istaura nell’io, ma solo come dilaniante mancanza. Tutt’al più al soggetto rimangono l’indefinito, che in maniera neanche troppo ossimorica rappresenta l’inestinguibile telos verso l’assoluto e la denuncia dell’inaccessibilità dello stesso, e l’immaginazione, autentica protesta contro l’imperio della ragione. E proprio l’immaginazione, per il Leopardi di Guglielmi, rappresenta una risorsa inesauribile: non è certo quella degli antichi, capace di dare vita alla natura naturans, ma piuttosto la facoltà di aprire la prospettiva sulle molteplici possibilità; una facoltà che la poesia (il benjaminiano «medium della letteratura », p. 18) deve far propria e costantemente liberare nel suo farsi. Certamente, ed ha ragione la Lorenzini ad indicare in questo elemento un tratto peculiare della riflessione di Guglielmi, la letteratura, da quando ha cessato di essere organica al mondo circostante, necessita sempre di un lettore capace di mettere in moto il meccanismo immaginativo depositato e strutturato nel testo (ancora il Benjamin del Concetto di critica), pena il silenzio, la morte, l’inutilità.

Come spiega lucidamente Guglielmi nell’intervento posto in chiusura, questo è proprio il compito della critica, sia nella sua veste ricettiva (l’atto di lettura che permette al testo di vivere), sia in quella creativa (la critica «è essa stessa un genere letterario», p. 177): al pari dell’immaginazione leopardiana, la critica deve volgere lo sguardo su possibili universi, semmai addirittura crearli. Scrive infatti Guglielmi, nel ’96, in piena temperie postmoderna: «Si parla oggi di fine della modernità, e di post-storia. E la modernità sembra in effetti essere giunta a un punto di paralisi. Il domino del presente ha oscurato l’orizzonte storico. La storia, per altro, intesa non metafisicamente ma come orizzonte di possibilità, resta il rimosso della post-storia. Ed è al possibile che è interessata la critica» (p. 187): critica, ovvero Scienza del possibile.

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