[ a cura di P. Pellini, Mucchi, Modena 2022 ]
La bella collana di Antonio Lavrieri «Dieci x uno. Una poesia, dieci traduttori» si è arricchita di un prezioso cigno baudelairiano. La fertile formula della collana affianca a una rapida, e talvolta spavalda, lettura critica del testo originale dieci versioni, inclusa la proposta conclusiva del curatore, e la discussione critica delle diverse scelte traduttive. Si tratta insomma di un caso originale di close reading, che non disperde la concentrazione nel rischio della rassegna descrittiva ma anzi – almeno nei casi migliori, come senz’altro è questo di Pellini – si rafforza e si completa. Quasi per un paradosso, accade così che quel Benjamin nel dare torto al quale risiede uno degli scopi del volumetto di Pellini vi trionfi poi nella sua proverbiale certezza che il compito del traduttore stia nel completamento di un intero; non imprigionato nel feticcio dell’originale ma rivelato nel suo disperdersi e ritrovarsi cambiando lingua, cambiando lettori, cambiando sguardi: frantumi che alludono allegoricamente all’unità profonda della civiltà. L’exemplum scelto da Pellini risulta impeccabile nel rivelare lo stridore dell’«accostamento fra il sublime e l’immondizia» (p. 11) e l’agonia del classicismo baudelairiano, che vi mostra «i germi della sua dissoluzione» (p. 9). Nel collocare storicamente il testo, lo studioso prende (opportunamente) le distanze dagli eccessi formalistico-strutturalisti, dichiarando «oggi illeggibile» (p. 6) l’imitatissima lettura di Les Chats proposta da Jakobson e Lévi-Strauss; rivendica d’altra parte – contro l’«edificio teorico troppo pesante» (p. 12) che ha fatto del Cygne, a partire da Benjamin, un momento emblematico dell’allegorismo moderno se non addirittura della modernità, con «unilaterale semplificazione» – lo statuto classico della poetica baudelairiana, anche nel ricorso all’allegoria di Andromaca (e a ciò che la segue), che viene per tanto retrodatata ad «allegoria a chiave, classica o barocca» (ibid.). Da Bachtin e dall’esperienza abbiamo tuttavia imparato che le grandi letture critiche fanno parte dei testi, e rivelano nell’orizzonte della temporalità lunga la verità storica – cioè, anche, attualizzata – dei classici. Non possiamo staccarle da loro, né separarcene con facilità. E così la conclusione di Pellini appare infine più debitrice nei confronti della prospettiva benjaminiana di quanto probabilmente vorrebbe: «Le Cygne è l’emblema della poesia moderna perché unisce – senza fonderli; anzi ostentando la sproporzione e la dissonanza – cronaca spicciola e sublime classico, tragedia e aneddoto, forma classica e frammentazione» (pp. 14-15). Senza fonderli: cioè, è necessario chiosare, nel modo allegorico appunto, e non in quello simbolico (se symballo vuol dire appunto ‘unire insieme, fondere’); così che la pretesa di considerare equivalenti i due modi, o almeno sovrapponibili e intercambiabili, mi sembra far torto alla elegante ricchezza di questa stessa interpretazione. Senza dimenticare che la rinuncia a fondere i due piani è ciò che fa andare Baudelaire oltre il dedicatario del Cygne, quel Victor Hugo che appariva ancora romanticamente fiducioso in un impasto stilistico e in una poetica che tenessero insieme la commedia del quotidiano e il tragico della grande storia. La brillante rassegna delle traduzioni, strutturata sulla base dell’impianto metrico via via adottato, conferma una volta di più il peso ermeneutico delle scelte traduttive, e mostra un meraviglioso esempio di close reading espanso. La palma va sorprendentemente alla versione di Fernando Bandini, capace di far prevalere doppi settenari abilmente dissimulati, preservando «la giusta misura di un trobar leu non privo di solennità» (p. 44). Su una strada non dissimile si muove la proposta, riuscita, di Pellini traduttore in proprio, al quale mi permetto solo di rinfacciare «sciabatta nella melma» (p. 77) per «piétinant dans la boue». E una pagina di elegante profondità critica è infine la sua personale poetica della traduzione, sintetizzata nella scommessa di «cercare il tragico in economia di mezzi retorici» (p. 48). Non si potrebbe dir meglio.
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