[Donzelli, Roma 2009]
Come nei precedenti libri saggistici (Cosa sono gli anni del 1997 e La luce delle cose del 2000), anche in La vita dei dettagli si rintracciano brevissime e intense prose descrittive, che qui punteggiano la vita di 32 dettagli da immagini artistiche di diverse epoche storiche (dal Cristo Morto del Mantegna alle opere di Edward Hopper, da Jacopo da Pontormo a Vincent Van Gogh), da cui la poetessa romana attinge per compiere il percorso inverso da quello che solitamente attiene il riconoscimento di un’opera d’arte attraverso un particolare.
Qui, infatti, ogni dettaglio di una immagine si situa nell’esatto punto di fuga delle ossessioni, delle vocazioni e delle attitudini artistiche di Antonella Anedda, che, in questo straordinario libro il cui sottotitolo recita Scomporre quadri, immaginare mondi, si interroga sull’arte rappresentandone le modalità di fruizione, assecondando l’attitudine a ricomporre il panorama artistico facendolo interagire con quello esistenziale e viceversa. Non casuale è la scelta numerica di questi dettagli: «Alla domanda sul perché siano 32, rispondo che ogni sguardo sostiene quello che può, in quel particolare momento di vita, e che l’ultimo dettaglio mi ha fatto sentire il peso di tutti i precedenti.
Ho dovuto smettere, stabilire una tregua, scrivere pagine sagge». Il riferimento alle 32 Variazioni Goldberg di Bach sottolinea la necessità di percorrere e attraversare, mediante diverse prospettive, lo stesso tema, che, sotterraneo e misterioso, affiora attraverso indizi e suggerimenti sparsi nel testo, tutti riconducibili al concetto di perdita (l’ultima pagina del libro è dedicata ad una lunga definizione della parola “perdita”, così come l’ultima sezione, intitolata proprio Collezionare perdite, scandisce una litania della lontananza e della mancanza, che trova nella Natura morta con stoffa l’unica parte definibile come narrativa dell’intero repertorio sul tema).
La vita dei dettagli, che giunge a due anni di distanza dall’ultima raccolta di poesie intitolata Dal balcone del corpo (2007), fin dai titoli delle cinque sezioni che la compongono (Ritagliare, Un museo interiore, Ritratti, Camminare, Collezionare perdite) suggerisce la volontà, espressa chiaramente da Anedda nell’introduzione, di affrontare una riflessione accurata sul tema dell’immagine e della sua dissoluzione (si ricorda a tal proposito la sua tesi di iconologia su Palma il giovane nella chiesa di Santa Lucia a Venezia), e, contemporaneamente, il tentativo di vivere la letteratura andando oltre la letteratura stessa, a partire proprio dagli esempi di Rothko e Bill Viola, solo per citarne alcuni.
E questo, suggerisce Anedda, è possibile attraverso un’opera di scardinamento, un andamento ludico ma rigoroso, in grado di mimare con levità e profondità il moto interiore legato al tema dominante, e di restituirne il nucleo primigenio a partire da un corpo inteso appunto come balcone, su cui far scorrere e su cui adagiare il dolore (anche) fisico: «Non volevo riflettere sulla perdita, ma attraversarla concretamente, volevo vedere sentimenti e pensieri cuciti a una stoffa, ritagliati sulla carta. Le fotografie che costellano il libro sono la prova di un passaggio e il tentativo di un esorcismo. Volevo fotografare lo spavento e l’abbandono, volevo che il dettaglio della mia mano saggiasse l’assenza dei corpi, che dalla catasta delle immagini ne affiorasse una, di volta in volta diversa, a seconda di chi guardava, ma capace di illuminare le altre. […]. Questo libro è una storia di fantasmi».
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