allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Jessica Hausner, Lourdes

[Austria-Francia 2009]

All’ultima Mostra del cinema di Venezia, cattolici e atei hanno scelto di premiare lo stesso film, la storia di una giovane paralizzata (Sylvie Testud), che, pur animata da una fede poco convinta, si reca in pellegrinaggio a Lourdes e qui si scopre improvvisamente guarita. Lourdes è un’opera importante perché osa una forma altissima, quella dell’apologo morale, affidandola interamente al rigore delle strutture narrative e iconiche: è questa la cifra che lo distingue tanto dal magnifico No Country for Old Men dei Coen (allegorico attraverso l’azione) quanto dal Lars Von Trier di Dogville (dove la parabola concide con la rottura della finzione), per avvicinarlo, piuttosto, a Bresson.

Inquadrata da una macchina da presa fissa, la sala da pranzo di un albergo si riempie del personale di servizio e degli ospiti, clienti-pellegrini che, diversi per disgrazie e per caratteri, si apprestano a consumare un pasto comune; la varietà dei volti è disciplinata dagli intervalli ricorrenti definiti dal rosso, dal bianco e dal blu delle uniformi di infermiere e volontari, che disegnano un microcosmo iterativo entro il quale il lentissimo zoom sulla protagonista annuncia il prodursi dell’eccezione. L’uso sobrio di questo espediente visivo serve a isolare gli individui nella trama delle masse e a definire i rapporti tra le loro esistenze, come il cappellino rosso che ci permette, a colpo d’occhio, di trovare Sylvie Testud nelle scene più affollate e di non dimenticare mai che è un puro caso che questa storia sia capitata proprio a colei che lo indossa.

Per Jessica Hausner il miracolo è infatti «la cosa più casuale che possa esistere», e il suo aspetto arbitrario conta più della sua eccezionalità: «perché proprio lei?» è quello che si chiedono tutti. La nozione di miracolo illustrata dal prete (a Lourdes tutti sono miracolati, solo che non tutte le guarigioni sono evidenti) non è altro che il rovescio della sua idea di normalità (ogni vita è speciale, anche se qualcuna sembra migliore di altre), ed entrambe sono propagandate al servizio della dolorosa pensabilità di un Dio buono, onnipotente e libero. Per questo l’unica inquadratura in cui l’occhio della cinepresa coincide con l’occhio divino è quella che riprende la processione serale, una massa indistinta in cui gli individui sono ridotti alle loro speranze, tutte uguali come le fiaccole che tengono in mano.

Nella logica implacabile di Lourdes, è subito dopo questa sequenza che Dio sembra fare la sua scelta, concedendo alla protagonista i primi segni della guarigione. L’anziana devota che la segue come un angelo custode può allora riscontrare una luminosa corrispondenza tra i propri comportamenti e la risposta del cielo: i fatti sembrano dar ragione alla rigida logica di causa ed effetto che applica nel predisporre le condizioni interiori ed esteriori del miracolo («cosa bisogna fare esattamente?»); pregare in ginocchio davanti alla statua della Vergine e puntare la sveglia prima di dormire sono per lei gesti da eseguire con la stessa precisione, perché riposano sulla fiducia in un nesso razionale tra le azioni umane e le loro conseguenze, in un collegamento costante tra la terra e il cielo («La Vergine ci guarda »).

Quando, durante la festa che chiude il film, la protagonista cade a terra, la certezza del miracolo abbandona quanti hanno assistito alla sua guarigione e lei stessa, ma, mentre la comunità si interroga sulla causa della caduta, la «miglior pellegrina dell’anno » sembra assalita da un dubbio più radicale. Ciò che per lei va in pezzi è piuttosto l’idea che, da malata, si era fatta della vita dei sani, e la decisione di risedersi, infine, sulla sedia a rotelle, potrebbe rivelare non una grave ricaduta ma la rassegnazione all’irrilevanza, all’indistinzione: al fatto che quello che le appariva eccezionale non lo sia, e che tutto sia retto dalla stessa spietata arbitrarietà. È quanto basta a svuotare di senso ogni felicità vissuta o solo promessa, anche quella più triviale celebrata da Albano e Romina nella canzone sulla quale il film si chiude.

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