[ Nuova Zelanda, UK, Canada, Australia 2021 ]
Montana, 1925. George e Phil Burbank gestiscono il ranch di famiglia, ma non si direbbe che siano fratelli: il primo è gentile e posato, l’altro è burbero e irascibile; George vorrebbe una famiglia, Phil ha studiato a Yale ma ora passa le giornate a castrare animali, orgoglioso di non lavarsi e di puzzare. George incontra Rose, una giovane vedova: la sposa e la porta a casa insieme al figlio di lei Peter. Phil non è d’accordo, e comincia a tormentare i nuovi arrivati.
Adattato dall’omonimo romanzo autobiografico del 1967 di Thomas Savage, The Power of the Dog è il ritorno alla regia di Jane Campion, dodici anni dopo il sottostimato Bright Star. Sfilacciando dall’interno le maglie di un genere storicamente machista come il western, Campion lavora per sottrazione e manda avanti la sua idea di cinema dove la sensualità passa, inevitabilmente, per la dimensione tattile: frequenti sono le scene in cui si maneggiano fiori di carta, tessuti, selle e lazi di pelle non conciata, ma anche fango, terriccio e interiora. Ciascuno di questi gesti ha un peso, e muove la storia più di qualunque parola di uno script che non abbonda in dialoghi o battute.
È anche la prima volta che Campion si concentra su protagonisti maschili, ma nonostante l’incursione nel western e la tensione omoerotica questo non è il suo Brokeback Mountain: man mano che George e Rose spariscono sullo sfondo, lo scontro tra i modelli di mascolinità incarnati da Phil e Peter diventa il vero fulcro del film. Le dinamiche di potere tra i due vengono negoziate e riconfigurate a ogni nuova interazione: nella scena in cui condividono una sigaretta è sintetizzata non solo l’intera storia, ma anche il modo obliquo in cui Campion decide di filmarla.
E il film gode delle proprie ambiguità: i predatori sono sia vittime sia salvatori; emozioni e motivazioni sono costantemente represse e spesso difficili da scorgere, proprio come il profilo abbozzato
del cane che solo Phil scorge tra le montagne all’orizzonte. The Power of the Dog è un film lento e paziente, sporco e seducente, misterioso ma anche frustrante, talmente ermetico da sembrare quasi astratto. Campion sfoggia una conoscenza profonda del medium e un’impressionante sicurezza dietro la macchina da presa: sa quanto indugiare su un dettaglio prima di tagliare; come smorzare l’atmosfera spesso opprimente con sprazzi di levità e tenerezza; come rendere potente una singola immagine senza che risulti didascalica. Se il colpo di scena finale risulta spiazzante, ripetute visioni mostrano quanto in realtà nulla sia stato lasciato al caso, e come ogni immagine – anche la più apparentemente marginale – sia in realtà cruciale per la comprensione del quadro. Campion mette in guardia dai rischi dell’eccesso di controllo – fisico ed emotivo, di sé e degli altri – attraverso un cinema di alta fattura, ironicamente controllato in ogni suo aspetto. In mani meno esperte avrebbe potuto essere un disastro, ma in quelle della regista di Lezioni di piano è semplicemente un trionfo.
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