[ETS, Pisa 2011]
A una prima occhiata Lo scriba e l’oblio si presenta come un volume straripante di materiali diversi: saggi critici (per esempio, su Eliot, Manzoni, sul romanzo storico e su quello di formazione), saggi di teoria e critica politica delle rappresentazioni (su Gramsci e Said), saggi di metodo e di teoria letteraria (sul neostoricismo americano, Auerbach, Lukács, Bachtin). Sembrerebbe una raccolta di lavori assemblata in un libro. Ma a una ricognizione appena più attenta questo si rivela invece opera lavorata e unitaria, perfettamente costruita e bilanciata intorno all’asse della critica delle rappresentazioni (come Domenichelli chiama le ideologie, l’immaginario, la tradizione culturale). I temi portanti (la Thick Description, la filosofia della storia e la concezione figurale del compimento, la funzione della interpretazione e dell’ermeneutica e quindi dello scriba) vengono anticipati per scorcio, poi sviluppati in modo articolato, infine ripresi nei due capitoli di conclusione.
Passando al merito, avrei qualche elemento di perplessità nei confronti di alcuni aspetti critici che riguardano specificamente l’italianistica, mentre per quanto riguarda la teoria devo dichiarare il mio pieno consenso a una critica delle rappresentazioni e una adesione complessiva all’impianto metodologico generale (lo sforzo storicizzante, la funzione intellettuale), in cui inserirei solo qualche elemento problematizzante di discussione. In particolare ho apprezzato certi paragrafi su Auerbach (come la sottolineatura della globalizzazone e dell’utopia auerbachiana dell’unità del genere umano), il capitolo su Gramsci e soprattutto quello su Said (ottimo anche negli esatti rilievi critici su Cuore di tenebra e Schopenhauer).
Mi sembra unilaterale la riduzione del senso dei Promessi sposi al lieto fine borghese, che conterrebbe una idea provvidenziale della storia, deriverebbe il suo significato dalla illustrazione di un itinerario di formazione borghese e di arrampicata sociale da parte di Renzo e andrebbe nel senso della privatizzazione della storia e del destino con l’esaltazione finale del nucleo familiare In realtà la conclusione del romanzo è assai più complessa e problematica e l’idea della peste voluta dalla Provvidenza è di don Abbondio e non dell’autore (che vede nella peste piuttosto un interrogativo tragico sulla inspiegabilità razionale del male), mentre la vita privata – a differenza di quanto accadrà nella narrativa del modernismo – è colta sempre nella prospettiva della totalità e nella intersecazione con la Grande Storia (la guerra, la peste).
E lo stesso potrei dire per la conclusione dei Malavoglia, nella quale Domenichelli non vede nostalgia (ma basta leggere Fantasticheria e le lettere a Capuana e ai familiari per vedere quanto essa sia presente nel Verga di questo periodo – e non più, invece, per esempio, in quello del Mastro): all’altezza di Vita dei campi e dei Malavoglia, il mondo dell’eterno ritorno è sì quello del bindolo, da studiare freddamente, ma è anche quello delle correspondances con la natura e dell’idillio romantico. Il mio accordo va soprattutto all’immagine finale dello scriba che considera la realtà da un’ottica straniante e marginale, o da una condizione di esilio. Io credo anzi che nell’assunzione di simile postura giochi un ruolo proprio l’attuale crisi dell’intellettuale che gli ha fatto perdere la funzione centrale di mediatore ideologico.
Domenichelli non nega tale crisi, ma tende ad attribuire allo scriba ancora una funzione nella capacità dell’analisi demistificante di cogliere la connessione dei fenomeni: la critica, insomma, avrebbe ancora un potere, per quanto piccolo e marginale, e proprio questo potere la renderebbe ancora utile e comunque niente affatto superflua e irrilevante. Io avrei probabilmente minore fiducia nella capacità della critica di influire sulla società civile; ma si tratta di sfumature. Resta il fatto che questo è un libro importante, uno dei pochi che ci faccia riflettere sulla nostra condizione e sul nostro lavoro di critici e di intellettuali.
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