[Marsilio, Venezia 2010]
Berlino, tra la crisi del 1929 e la nomina di Adolf Hitler a capo del governo: il trentenne Jakob Fabian, germanista disoccupato, contempla den Gang vor die Hunde (questo il titolo scelto dall’autore, e rifiutato dall’editore), ‘l’andata in vacca’ del suo paese e del mondo. «Dovresti deciderti una buona volta a far qualcosa di serio», lo punzecchia l’amico Labude. «Ma non so far nulla!». «Volendo, potresti». «Ma non voglio», sbotta Fabian: «Dov’è il sistema nel quale potrei funzionare? Non c’è, e niente ha senso». Pubblicato nel 1931, tradotto una prima volta nel 1933 e una seconda, con prefazione di Cesare Cases, nel 1980, quando era luogo comune paragonare la situazione italiana a quella di Weimar, il romanzo di Erich Kästner, a lungo introvabile, torna per la terza volta, come a marcare un nuovo giro di giostra: «E adesso siamo di nuovo in sala d’aspetto e si chiama di nuovo Europa.
E anche questa volta non sappiamo che cosa succederà. Viviamo alla giornata, la crisi non finisce mai». Con Berlin, Alexanderplatz di Döblin Fabian è uno dei testi chiave di quella “nuova oggettività” che, stando alla classica dicotomia di Lukács, pendeva più verso il “descrivere” che verso il “narrare”: non andava cioè alle dinamiche profonde dei mutamenti sociali ma si fermava alla mimesi superficiale di ambienti, scene, tipi umani. Né Kästner, affermato autore di testi da cabaret e “poesia d’uso”, si proponeva di andare oltre uno spietato naturalismo, scabro come le stampe di Georg Grosz, esaustivo come Berlino: sinfonia di una metropoli di Walter Ruttmann. Fabian è una corsa con camera a mano per la Berlino di quegli anni tormentati, dove a reggere la macchina da presa è un ‘moralista’ che percorre fino in fondo la sua catabasi in un mondo immorale: dalla perdita del lavoro a quella dell’amico, dell’amata, della vita.
Lo schema è quello dell’entrata di un giovane in società, che ha i suoi classici in Il rosso e il nero e Le illusioni perdute, ma il montaggio delle scene è novecentesco, rapido, febbrile. Fabian lascia la provincia per conquistare la capitale, si laurea brillantemente, ma non riesce a farsi una posizione sociale e fa passi avanti solo nell’esercizio della disillusione: la grande città è un bordello a cielo aperto, i giornali sono ostaggio del cinismo, la politica è ridotta a zuffa, l’università è un covo d’invidie, il cinema un miraggio con cui produttori lubrici adescano giovani aspiranti attrici, e si potrebbe seguitare. A tutto questo il “moralista” Fabian, «l’uomo incapace di piani prestabiliti, lo specialista dell’incertezza», non oppone una prospettiva rivoluzionaria, come l’amico Labude, ma il desiderio di «aiutare l’umanità a diventare onesta e ragionevole », ovvero la necessità di una lenta trasformazione dei modi di vita individuali (da cui l’allusione, nel nome, al riformismo socialista dei Fabians e, attraverso di loro, a Quinto Fabio Massimo il cunctator).
Kästner ce lo mostra mentre soccorre due operai, un comunista e un nazionalsocialista, feritisi a vicenda in una sparatoria, poi un disoccupato ridotto a mendicare, un vecchio inventore espropriato di tutto fuorché delle sue idee e infine, tornato nella natia Dresda, un bambino caduto nell’Elba – dove trova la morte, perché «non sa nuotare». Fuor di metafora: non sa sgomitare, sopraffare, prostituirsi. Fabian è l’uomo buono che all’idiozia del Miškin dostoevskiano e alla schizofrenia della Shen-Te di Brecht sostituisce l’ironia, con cui può osservare il mondo senza farsene incantare. Ne deriva un atteggiamento assai prossimo al “realismo depressivo” che Jonathan Franzen, in Forse sognare, ascrive al romanziere sociale contemporaneo: «Se l’appiattimento del campo di possibilità è esattamente ciò che ti deprime, ti rifiuti di prendere parte all’appiattimento dichiarandoti depresso. Decidi che è il mondo a essere malato e che rifiutarsi di funzionare in un mondo come questo significa essere sani».
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