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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Philip Gosset, Dive e maestri. L’opera italiana messa in scena

[il Saggiatore, Milano 2009]

Esce alla fine del 2009 un bel libro di Philip Gossett sul melodramma italiano: Dive e maestri. L’opera italiana messa in scena. Il volume, di circa settecento pagine, cattura subito il lettore per la vastità delle questioni affrontate e per lo stile diretto, senza fronzoli, con cui l’autore cerca di fare il punto su un genere teatrale fra i più impegnativi e insidiosi. Il metodo prescelto cerca di tenere insieme visuali diverse, approcci disciplinari molteplici, legati assieme, però, da un entusiasmo e da una passione intellettuale che hanno pochi uguali nel panorama italiano.

La forza del libro consiste proprio nel riuscire a coordinare la necessaria competenza musicologica con la divulgazione, l’approfondimento del particolare tecnico e specialistico con la annotazione estetica e la verifica dei risultati in palcoscenico. Non mancano, infatti, osservazioni di tipo filologico, che riguardano la preparazione delle edizioni critiche o la lettura di autografi e manoscritti attraverso tutti gli strumenti ecdotici in nostro possesso. In tal modo vengono smascherate edizioni erronee, versioni della vulgata piene di fraintendimenti, tradizioni esecutive assai vicine al “tradimento” dell’originale.

Ma ciò che affascina nella lettura è la dimostrazione di quanto sia utile comprendere alcune scelte filologiche ai fini della resa scenica, entrando nella partitura del direttore d’orchestra o negli appunti di un regista o di uno scenografo. Tutto ciò che gravita intorno allo spartito operistico (manoscritti, stampe, edizioni pirata, revisioni, versioni multiple) è finalizzato al rapporto con la scena e a ciò che può prodursi in sede di rappresentazione. Gossett è consapevole che non esiste né esisterà mai la mise en scène perfetta. La sua proposta implicita guarda a un esito di correttezza e di onestà storica e intellettuale protesa all’infinito e retta da un tenace e costante lavoro di approssimazione a quel traguardo.

Come spesso accade, conta di più il percorso che non l’obiettivo, se la strada rispetta i criteri filologici di verità e chiarezza. Impresa non facile, e lo sa bene Gossett, direttore artistico del Rossini Opera Festival per svariati decenni. La lotta contro le brutte, vecchie abitudini di certe prassi esecutive talora sembra scoraggiante. Gli atteggiamenti inerziali di alcuni protagonisti (direttori, registi, scenografi, orchestrali e cantanti) rendono faticoso lo smantellamento di tagli, vezzi e gigionerie di ogni tipo: le cosiddette “tradizioni interpretative”.

Eppure il giudizio dell’autore sulle partiture operistiche utilizzate nel Novecento non ammette repliche: «pur essendo preparate da musicisti relativamente competenti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, queste partiture non riflettono, e mai furono, il prodotto di un accurato lavoro editoriale, e neppure registrano le tradizioni esecutive in modo minimamente affidabile » (p. 132). Come dire: la fedeltà al testo è criterio imprescindibile, ma soltanto dopo che sia stata accertata – per quanto è possibile – la correttezza globale di ogni edizione prescelta.

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