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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Derek Walcott, Isole. Poesie scelte (1948-2004)

[traduzione di M. Campagnoli, Adelphi, Milano 2009]

Leggere questa nuova, e ampia, selezione dell’opera di Derek Walcott (cui bisognerà però sempre associare l’esile bellissimo volume Adelphi del 1987 Mappa del nuovo mondo) ci aiuta a situarci nel mondo di oggi. La musica di queste poesie – triste come la nostalgia per il mare caraibico, aspra come la vita di un «mulatto» di Saint Lucia trapiantato a New York – può riorganizzare il dispersivo rumore della periferica Europa. Derek Walcott parla del nostro imminente futuro. Nella forma delle sue poesie travasa l’unica alternativa possibile alla barbarie delle identità (regionali, nazionali, culturali, religiose, sessuali) concepite come invalicabili mura difensive, sbandierate come ultimo antidoto al caos del diverso, dell’estraneo, del marginale che sta per invaderci.

Derek Walcott, tuttavia, parla anche del bisogno antropologico che tutti noi abbiamo di conoscerci, di vedere – anche se solo per brevi istanti – l’intero che i nostri tanti frammenti di esperienza possono costituire; in altre parole Derek Walcott parla al tempo stesso di un bisogno – biologico e sociale – di identità. Da questa contraddizione nasce la forza della sua poesia e il testo in questo senso più rappresentativo è Love After Love (L’amore dopo l’amore; ma qui la traduzione del titolo è discutibile, quasi fuorviante: perché non Amore dopo amore?) a pag. 277: «Amerai di nuovo l’estraneo che era in te. / Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore / a se stesso, all’estraneo che ti ha amato // per tutta la vita, che hai ignorato / per un altro, che ti conosce a memoria».

«Stranger»: straniero, estraneo nato alla periferia di un impero coloniale in cui le lingue della dominazione – l’inglese, prima di tutto, e poi il francese e lo spagnolo – si contaminano con il patois creolo: «sono solo un negro rosso che ama il mare; / ho avuto una buona istruzione coloniale; / ho dell’olandese, del negro e dell’inglese in me, / e o sono nessuno, o sono una nazione ». «I’m just a red nigger who love the sea»: con un errore grammaticale («love» in luogo di “loves”), e dunque con una consapevole mimesi dell’inglese contaminato di un «negro» dei Caraibi, comincia una delle quartine più belle di The Schooner Flight (La goletta Flight, p. 293).

«Sono nessuno» («either I’m nobody») – dice Walcott definendo la sua storia, una storia di schiavi deportati dall’Africa e iniziata quindi «senza nomi e senza orizzonte», «senza memoria» e «senza futuro» (Names, p. 247); ma in alternativa – continua il poeta – «sono una nazione» («or I’m a nation»). In un memorabile saggio, Brodskij sosteneva che qui il termine «nation» va interpretato in senso ampio, come grande comunità linguistica anglofona, come periferia o provincia in cui la civiltà occidentale, ormai alla deriva, paradossalmente si decanta e si ritrova. E il lavoro di filtro e di contaminazione opera in Walcott attraverso il ritmo dilatato dell’epos – dominante soprattutto nelle ultime raccolte, dal 1984 al 2004 – nelle variazioni del mito omerico di Ulisse, nel recupero del verso e delle immagini di T. S. Eliot.

Con una avvertenza, però: «i classici consolano. Ma non abbastanza» (Sea Grapes; Uve di mare, p. 240). La vera urgenza di Walcott è violare il museo, forzare la tradizione occidentale a raccontare la quota di dominio e di dolore generata dalla sua stessa civiltà, a definire l’identità frammentata dei colonizzati. Non ci sono riti di accoglienza per chi ritorna; essere estranei, stranieri significa «arrivare / a sapere che ci sono ritorni a casa senza casa» (Homecoming: Anse La Raye; Ritorno a casa: Anse La Raye, p. 133). E tuttavia le radici sono là, esistono, vengono individuate con una lingua asciutta, realistica ma anche intensa: sempre in bilico tra disincanto e abbandono, sempre alla ricerca del suo «noioso mare paradisiaco» (ivi, p. 134; Islands, Isole, p. 70; The Prodigal, Il prodigo, VI tempo, p. 564).

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