[Laterza, Roma-Bari 2010]
Giorgio Vasta aveva annunciato che il suo nuovo libro sarebbe stato un ibrido: non un romanzo, ma nemmeno un saggio. E infatti Spaesamento è qualcosa di veramente difficile da definire; una narrazione condotta tra diario di viaggio, romanzo, analisi, sogno e incubo. Forse, quindi, il primo spaesamento che l’io narrante condivide con il lettore è quello della comprensione, della cattura e dello sviluppo di una così composita materia narrativa. Vasta ci racconta tre giornate palermitane all’insegna del carotaggio: il prelievo di campioni di realtà al fine di «farmi un’idea di dove sono, a descrivere la forma di questo spaesamento». Ci si aspetterebbe dunque un protagonista che si fa tutto occhi e orecchie, un attentissimo e lucido osservatore della realtà. E invece la lucidità è quasi opzionale, la verità si mischia alla visione, i sogni si fanno rivelatori.
Gli spaccati di realtà che vengono percepiti si fondono con una materia al tempo stesso densa e inconsistente, che travolge insieme ad una messe di personaggi enigmatici ed inquietanti: la donna cosmetica, Topinambur, Capitan Harlock, tutti latori di una verità che sottende un nome e uno solo, quello di Silvio Berlusconi, «perché Berlusconi è la parola che apre e assorbe e contiene tutto e l’opposto di tutto». Il secondo spaesamento è dunque quello della consapevolezza: l’analisi di Palermo è l’analisi dell’Italia è l’analisi di Silvio Berlusconi, che dell’Italia si è appropriato. La coscienza di essersi adattati all’onnipresenza di un nome, talmente imponente da essere composto dai bambini in spiaggia, con la sabbia, al posto di castelli e costruzioni.
In Spaesamento i bambini occupano una parte fondamentale. Perché se tutti i personaggi che hanno superato la soglia dell’adolescenza diventano materia onirica, i bambini rimangono se stessi e sono tremendamente reali: un ancoraggio alla realtà molto doloroso, fatto di estorsioni e sputi ed estraneità assoluta, bambini che nel loro essere infantili si riconfermano ancora una volta adulti, ma soprattutto umani, carichi più o meno coscientemente di una vena di crudeltà che, agli occhi dell’autore, non può che essere semplice e chiara. Vasta comprende, nei suoi innumerevoli carotaggi, che l’uomo impara a non reagire agli stimoli, a non recepire più il male, o a guardarlo con uno sguardo «liquefatto e dismissore di chi sa che non c’è più niente e sospetta che in realtà non ci sia mai stato niente», e che parlare di politica equivalga a parlare del più e del meno, perché se non c’è niente e niente mai c’è stato tutto si equivale.
Questo è il terzo e ultimo spaesamento: il terrore di diventare come la lumaca che si abitua a tutto. Rendersi conto che non è Berlusconi la causa dell’inerzia palermitana (italiana, umana). E nel lucidissimo e delirante discorso dell’ultimo capitolo, assistiamo alla messa in scena di tutte le paure di chi, come Vasta, si domanda perché le cose stanno andando così, e perché nessuno ha la forza davvero di fare un gesto di reazione. Non ci sono risposte reali, sono azzardi, è il fallimento e insieme il compimento supremo di un carotaggio che non mostra alcuna stratificazione, ma solo una grigia uniformità: «e l’intelligenza, domando. La nostra intelligenza, spiego, il fatto di saper comprendere tutto così profondamente: è possibile che non serva a nulla? Stanno zitti, si guardano».
Per Vasta, come per chi legge, è doloroso rendersi conto che si vive in un presente fossile, la cui sopravvivenza pare coincidere con l’autodistruzione. E dunque questo libro, romanzo, sogno, incubo, indagine e delirio non può non suonare come un grido d’allarme. Solo che si tratta di un grido disincantato e febbrile, troppo fragile per avere presa sulla realtà, sul presente bianco che ci racconta Vasta, una febbre cui forse l’unico modo di reagire è tentare, ancora, di legare e unire e comprendere, e trovare i nessi: riparare, per fabbricarsi «un sentimento per l’uso dell’umano».
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