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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Paolo Maccari, Fuoco amico

[Passigli, Firenze 2009]

«Fuoco amico» è un tragico ossimoro. La raffica che parte dalle file degli “amici” può essere la clamorosa manifestazione di un tradimento, di una distonia: due termini che ben definiscono la condizione esistenziale del personaggio che dice «io» nel libro di Paolo Maccari. Un libro maturo, coeso nei temi ed equilibrato nella forma, che esce dieci anni dopo la prima raccolta (Ospiti). Nella finzione narrativa che aggrega i versi della prima sezione, L’ultima voce, il personaggio è sopravvissuto a un eccidio solo per essere «tenuto sotto osservazione». Strettamente riservato, la prosa introduttiva in forma di dispaccio, dà appunto notizia della cattura e prescrive la modalità della reclusione senza precisarne i motivi.

Saremmo dalle parti del montaliano Sogno del prigioniero, o di un kafkiano processo, se non fosse che i temi sono già interamente maccariani: l’esclusione da un consesso ostile, la stessa gioventù come causa o pretesto di quell’esclusione, la differenza rispetto al «secolo ordinato» voluto dai persecutori. È una forzatura leggere in queste poesie una diretta allusione al terrorismo; c’è invece l’allegoria di una non specifica situazione generazionale, nella quale peraltro non si esaurisce la natura del superstite, remoto anche dagli amici a cui si rivolge: «Eravamo pronti? Ve lo chiedo ora / che mi assalite urlanti: davvero pronti? / Amici, io non lo so» (sonetto 6). La distonia investe infatti anche la relazione con i coetanei e i “correligionari”, mettendo in discussione ogni fede – ideologica, politica, morale. Di qui il motivo del tradimento, che torna più volte e in diverse declinazioni nel libro, sempre come corrosione di legami e convenzioni.

Nella seconda parte, Interni, Maccari abbandona il sonetto che, pur lavorato dall’interno, esponeva ancora una quasi regolare metricità; e che, disponendosi in serie, era particolarmente congeniale all’argomento della prima sezione: sia perché, nella sua studiata artificiosità, la forma assecondava il travestimento del protagonista e la rappresentazione sacrificale del suo status esistenziale; sia perché la cadenza regolare ribadiva l’ossessiva iterazione della prigionia, il falso movimento dell’allucinazione notturna. Viene in mente il Raboni di Quare tristis, autore che non a caso Maccari ricorda nella nota finale.

Rispetto ai motivi della costrizione e della distonia, i rari intermezzi idillici rivelano un valore compensativo, tanto più difficile da conquistare quanto più le immagini tendono a una rappresentazione volutamente stilizzata. Come in Tempo di rose: «una limpida compagna / senza preoccupazioni anch’essa lieta / dell’invasione grande di quel rosa / soffuso in cielo come una ghirlanda / sottile e rorida di petali di rosa». La sezione successiva, Le prede migliori, contiene alcune delle poesie più importanti: da Dialoghetto crudele, che assimila in chiave semiseria il motivo del “fuoco amico” (ridotto a fuoco fatuo, a esercizio di ipocrisia sentimentale); a Preparativi cristiani, con l’aggettivo a esprimere sia la ritualità quasi religiosa con cui il protagonista compie gli atti preparatori al suicidio, sia l’ironia nei confronti dei suoi meccanici esorcismi.

Il punto di vista etico muove da qui, dall’indignazione per l’acquiescenza e la falsità. Il sale polemico diventa così risorsa per un investimento sui caratteri umani, ritratti e contrario attraverso il sarcasmo e l’invettiva (come in A un presuntuoso, nella sezione Le navi, il mare). L’ultima parte di Fuoco amico contiene sette libere traduzioni da Rimbaud, Claudel, Pound. Non proprio light verses, ma coerenti integrazioni; come la poundiana Francesca, in cui la situazione esistenziale del protagonista viene filtrata e addolcita dalla figura dell’utopia femminile, che schiude nel finale un’icona luminosa.

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