[a cura di M. Rizzante, traduzione di C. Bovero, Mimesis, Milano 2010]
Scritta tra il 1928 e il 1931, pubblicata quasi subito e in Italia non prima di trent’anni, la trilogia I sonnambuli di Hermann Broch viene oggi nuovamente proposta nella collana «Letteratura» di Mimesis, diretta da Massimo Rizzante. La traduzione, rivista dal curatore, è ancora quella einaudiana di Clara Bovero, mentre prefazione e postfazione sono affidate, rispettivamente, a Milan Kundera e Carlos Fuentes. Ed è proprio quest’ultimo che ascrive Broch a una sorta di linea manchega tirata da Cervantes a Machado de Assis, passando per Sterne e Diderot, artefici, tutti, di «una creazione letteraria che si riconosce tale, che non desidera soltanto riflettere la realtà, ma creare un’altra realtà»; nondimeno, per l’autore di Gli inganni, «nonostante un certo successo» il tedesco è stato – e viene considerato – «incomparabilmente» meno influente dei grandi modernisti della sua epoca.
Su tutte, gli farebbe ombra la figura di Musil, che espressamente lo incolpò di aver saccheggiato, per il suo triplice esordio, impianto teorico e attrezzeria di ciò che stava per diventare L’uomo senza qualità. Nella trilogia di Broch Musil «vedeva – scrive Canetti – una copia della propria opera, di un’impresa che lo teneva occupato ormai da decenni; e il fatto che Broch l’avesse portata a termine così presto, subito dopo averla cominciata, gli ispirava la diffidenza più profonda». Fondata o meno che fosse l’accusa, certo è che, quarantenne, all’epoca di questa prima prova Broch è già pienamente scrittore; e lo è proprio in quanto della sua formazione si inalvea nella scelta di lasciare ogni cosa per dedicarsi al solo romanzo: ingegneria, diritto, filosofia, sociologia, antropologia, matematica e psicologia, non c’è disciplina, per lui, che regga il confronto con la scrittura; pure, non v’è scrittura che possa trascurare le potenzialità euristiche delle scienze umane.
Oltre mezzo secolo dopo la sua scomparsa, il ritratto di Broch resta quello di uno dei maggiori teorici del romanzo contemporaneo, che ha contribuito a far uscire dalle secche di una letteratura intesa come illustrazione di costumi aggiogati al tempo. All’altezza di una riflessione costante e puntigliosa, testimoniata dai numerosi saggi e dall’epistolario – antologizzato in appendice –, nei Sonnambuli la sua fisionomia è più che pronunciata: ciascuno dei tre romanzi che ne compongono l’affresco fissa nel titolo, insieme a una data, anche uno stato d’animo, un modo d’essere e di interpretare cui la vicenda narrata coincide tanto simmetricamente che allegoricamente (1888 Pasenow o il romanticismo; 1903 Esch o l’anarchia; 1918 Huguenau o il realismo). Di conseguenza, il registro non può modularsi se non sperimentalmente e, in qualche misura, esaurirsi nella realizzazione dei suoi intenti.
Cinquant’anni di storia tedesca vengono attraversati all’insegna della disgregazione dei valori che precede l’avvento del nazismo: se l’Ottocento si chiude con la perpetuazione di virtù obsolescenti (Pasenow), il ventesimo secolo s’affida a nuovi parametri, crede nella ragione illuminata e illuminante (Esch), ma la protervia del calcolo, dell’utile e della speculazione che ne sono il rovescio (Huguenau) non può tollerare la fiducia quasi metafisica nelle sorti umane. L’ultimo pannello è il più complesso, affatto diverso da quelli lo precedono per cadenza e stile. Ma la varianza è caratteristica di tutta l’opera brochiana.
Il successivo Gli incolpevoli, come poi Sortilegio, prima parte di un trittico incompiuto (Demeter), o L’incognita, non sono che forme e modi dissimili per arrivare, in La morte di Virgilio, all’obiettivo agognato già con la stesura dei Sonnambuli, ovvero a quel romanzo gnoseologico «in cui – le parole sono dello stesso Broch – si ritorna, al di là della motivazione psicologica, agli approcci fondamentali della conoscenza, della logica e dell’oggettività dei valori». Un apice nella letteratura del ventesimo secolo, un modello per quella del ventunesimo.
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