[Sceneggiatura di J. Penhall, fotografia di J. Aguirresarobe, con Viggo Mortensen e Kodi Smit-McPhee, USA, 2009] [Einaudi, Torino, 2007]
Lo scorso inverno sembrava che il film The Road, adattamento dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, non avrebbe avuto distribuzione in Italia perché giudicato troppo deprimente. Viene spontaneo chiedersi quanto l’ostracismo non sia da attribuirsi già all’archetipo narrativo di McCarthy: raccontare la vicenda di due sopravvissuti a un disastro planetario senza fornire coordinate politicosociali; rappresentare il bene e il male denudati di qualsiasi qualificazione attualizzante. Non sorprende che le ragioni dell’interdetto coincidano con il punto di forza del film, che coglie uno degli elementi più qualificanti del romanzo. Eppure Hillcoat non va molto oltre, e ci lascia col desiderio di uno sguardo più allucinato, più atto a cogliere la ruvida e disadorna umanità della prosa di McCarthy.
La fabula originaria, rispettata pur con le licenze consentite all’intreccio nel passaggio di genere, narra la storia di sopravvivenza di un padre e un figlio nello scenario post-apocalittico di un mondo sconvolto da infinite devastazioni naturali, sulle cui cause non ci viene rivelato nulla di preciso. Un universo dominato da un presente senza storia, cui manca sia la memoria del passato (se non per via ablativa, attraverso i ricordi sfilacciati e perturbanti del padre), sia la proiezione verso il futuro, privato di qualsiasi escatologia.
L’evidenza dolorosamente realistica (il freddo, la fame, il cannibalismo) si esprime anche nei ritratti di paesaggi estremi, il cui potenziale di visionarietà, ai confini con l’astrazione, è un modo per declinare all’infinito la realtà nella canonica direzione postuma del postmoderno. Hillcoat limita l’uso degli effetti speciali, nel tentativo di proporre un facsimile dell’iperrealismo di McCarthy; il film non intercetta però il punctum del romanzo, che diluiva inavvertitamente la focalizzazione, dal narratore esterno ai violenti flussi di coscienza del protagonista, e si serviva di una studiata compenetrazione tra realismo e trascendenza.
Per il primo fanno fede le estenuanti prestazioni tecniche del padre (il fissaggio di una ruota del carrello, l’apertura di una botola, la sutura di una ferita); per il secondo valgano le opposizioni binarie (il bene e il male) e la scelta dei valori da difendere nella devozione eroica alla sopravvivenza. Una sensibilità più ferocemente allucinata avrebbe potuto rendere nel film il patrimonio intertestuale del romanzo, che spazia dalla tradizione americana, invertita, del viaggiatore “sulla strada” (London, Kerouac, Anderson, Lindsay, Sandburg), alle suggestioni teatrali (il morality play e il dramma dell’assurdo), fino ai riferimenti biblici (Eli, il vecchio che il bambino vuole nutrire, ha il nome del profeta dell’Antico Testamento che riceve il cibo da un angelo e poi vede Dio).
Il film The Road ci consegna un catalogo nitido di violenze e sopraffazioni, ingentilito dalla bella caratterizzazione dell’amore fra padre e figlio; nell’insieme, però, anche il parziale happy end, già presente nel romanzo, sembra più una facile concessione al genere catastrofico che la risposta altamente morale cui la storia di McCarthy dolorosamente perviene.
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