[introduzione di Eraldo Affinati, Mondadori, Milano 2008]
Se si chiedesse ai poeti che oggi hanno cinquant’anni quali sono i loro punti di riferimento, i maestri italiani da cui non smettono di imparare, probabilmente la maggior parte di loro pronuncerebbe i nomi di Sereni, Zanzotto, Pasolini, Giudici, Sanguineti, Rosselli, Luzi, Neri. Se la stessa domanda fosse rivolta a poeti di dieci, quindici anni più giovani, uno dei nomi che forse ricorrerebbe più spesso sarebbe quello di Milo De Angelis (1951). Sin da Somiglianze, la poesia di De Angelis aderisce al mondo ordinario senza appiattirsi sulla sua superficie, ma anzi scagliandolo in un turbine metaforico di ardua, a tratti impossibile decifrazione, secondo un modo di procedere che deve qualcosa alla poesia di Celan. Più volte si è evocato lo spettro dell’orfismo (o del temibile neo-orfismo di pochi, superstiti milites gloriosi).
Eppure, e non solo per le reiterate proteste dell’autore, sembra ormai pacifico riconoscere che l’orfismo c’entri assai poco, come non ha troppo senso pensare alla poesia pura di estrazione e tradizione simbolista francospagnola (tanto che Mallarmé e Jiménez, in un gioco che il poeta concede all’amico e curatore Affinati, finiscono rubricati tra gli autori estranei e lontani dalla sua sensibilità). Nessuna alonatura semantica, mi pare, circonda i versi perturbanti di De Angelis, ma un’autentica necessità espressiva che fa instancabilmente cozzare, più che fondere, i significati.
Sin dalle prime pagine di Somiglianze, il lettore si accorge che quella che ha davanti è una poesia inclusiva in cui accanto al «grembo», al «corpo tenue», al «brillare di una goccia» o a una «luce viva / e tenera» trovano accoglienza un «sacco di cellofan», «l’odore degli spogliatoi», le «cosce» di una donna, oltre a brani di discorso riportato che dicono «vienimi ancora dentro», o «farò della mia vita una porcheria». Questa euforia del dire subisce in Millimetri (1983) una clamorosa smorzatura, tanto che la cifra della seconda raccolta risulta essere un «ghiacciato astrattismo» (Zublena) in cui viene azzerata qualsiasi possibilità di condivisione ideale o sentimentale.
Sarà solo con la ripresa del dialogato messa in atto dalla pur sibillina Terra del viso (1985), ma soprattutto con la discesa verticale nelle proprie origini attuata da Distante un padre (1989), con l’inopinato recupero del dialetto monferrino di parte materna, che la poesia di De Angelis lascerà presagire una scossa, un mutamento che avrà bisogno di un altro decennio per giungere a maturazione. Nel 1999, Biografia sommaria immette nei consueti abissi semantici la dimensione orizzontale della narratività e del canto, tanto che un lettore è indotto a sospettare una rimeditazione del Sereni de Gli strumenti umani e di Stella variabile, dopo due decenni di iper-concentrazione semantica.
De Angelis accoglie gli episodi del passato, ne rievoca i personaggi (le celebri donne sportive, su tutti). Fino a che, nel 2005, il passato-presente della vicenda della morte di Giovanna Sicari, poetessa e moglie dell’autore, produce il canzoniere in morte di Tema dell’addio. Ciò che non muta, nel corso di questa parabola trentennale, è la straordinaria capacità di estrarre dalle vicende minime e individuali (la propria biografia, la morte di un congiunto) un’interrogazione tragica che nessun lettore può ignorare o tacciare di bellettrismo. Per questo, attraversato il volume delle Poesie, attendiamo con curiosità la prossima stazione del percorso, sperando che il «loico furore» (Affinati) di De Angelis sia ben lungi dall’estinguersi.
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