[Einaudi, Torino 2017]
Nello scritto Letteratura come vampirismo, contenuto in I demoni e la pastasfoglia, Michele Mari sottolinea come il rapporto fra lo scrittore e la realtà sia di tipo vampiresco, ma il sangue succhiato non serve ad appropriarsi del reale (i «bocconi mondani» non sono digeriti), bensì a nutrirsi delle proprie angosce e delle proprie ossessioni; voyeur e vampiro di se stesso, lo scrittore contagia con la lente del proprio io-mostro tutto quanto viene catturato dalla sua penna: l’onanismo sembra essere, per Mari, uno stato permanente e ineliminabile dell’esistenza. Non stupisce allora il titolo del suo ultimo libro: Leggenda privata è infatti il racconto delle angosce e delle ossessioni di Mari bambino e adolescente sul palcoscenico privato della casa (cronotopo familiare ai suoi lettori) infestata dai propri fantasmi, attraverso i quali si inscena il rapporto mostruoso che lo scrittore intrattiene con il proprio io, scisso, doppio, metà falso e metà vero. La struttura del libro – nonostante la facile ironia dello scrittore: «l’autofictiografia … Ho un po’ di nausea, scusate … » (p. 14) – è quella dell’autofiction: al racconto privato della vita famigliare di Mari, condotto per via aneddotica e non lineare, ripercorso con memoria accurata e documentazione fotografica, si contrappone una cornice fantastica e un narratore che si dichiara esplicitamente menzognero e ammette di aver aggiunto del lievito romanzesco che scompagina la narrazione, la fa diventare leggenda e impedisce che il patto di lettura sia quello autobiografico. Lo stesso ricorrere, a mo’ di ritornello, del «nacqui d’inverno» scandisce la narrazione nel tempo ciclico della fiaba, in contrasto con la determinazione temporale (comunque raramente specificata); i verbi coniugati principalmente al passato remoto inseriscono il racconto nell’orizzonte, appunto, della leggenda. Entro questo orizzonte si collocano anche una serie di scene che non sono altro che il ribaltamento di immagini cristallizzate dalla tradizione letteraria, come quella del bacio della buonanotte che rimanda, per contrasto, alla notissima scena che apre la Recherche. La Leggenda di Mari, al contrario di quanto il titolo rematico potrebbe in parte suggerire, è una storia fatta di atti mancati («il sesso mancato e dunque il sesso più vero», p. 32), di assenze (anche testuali attraverso bianchi e uso frequente dell’aposiopesi), di feticci, oggetti perduti e ricordati nostalgicamente, di voyeurismo per attimi mai vissuti. L’io di questo libro guarda e racconta il suo mondo privato attraverso le lenti della nevrosi e dell’angoscia, creando un racconto dell’orrore, con la necessaria sottolineatura che «con orrore si intenderà qualcosa che ha a che fare molto da vicino con l’angoscia e anzi con la semplice tristezza, e dunque questo si aspettino da me, un romanzo triste/angosciato e dunque caratterizzato da una certa quota di divertimento e di virtuosismo» (p. 19). Tutto è filtrato dall’ingombrante prospettiva narcissica del protagonista narratore, fino al punto che anche gli altri personaggi diventano funzioni strumentali alla sua rappresentazione. Il giovane Mari si muove in uno spazio triangolare circoscritto dal masochismo materno, il sadismo paterno e l’erotismo della giovane cameriera. A ognuno di questi poli è associata una galassia di significati contrastanti, che convivono e scindono l’identità del narratore. Su questa scissione Mari torna a insistere costantemente, trasferendola anche sul piano del corpo, in particolare nell’organo sessuale dopo la circoncisione: «pensare con trasporto erotico significava in ogni caso pensare con una certa dose di dolore, causato dal conflitto glande-prepuzio, io dissociato anche lì» (p. 77). Entro questi orizzonti il narratore si trova chiuso in uno spazio claustrofobico e solitario, interiorizza un’impasse: «quella di chi trasferendo la bestia la ingabbia» (p. 57). L’unica soluzione sembra essere il virtuosismo della scrittura, la potenzialità della finzione che assume un valore al tempo protettivo e conoscitivo: è solo nell’oltranza della finzione che l’io si scopre «più vero» (p. 88).
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