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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Michele Mari, Leggenda privata

[Einaudi, Torino 2017]

Nello scritto Letteratura come vampirismo, conte­nuto in I demoni e la pastasfoglia, Michele Mari sot­tolinea come il rapporto fra lo scrittore e la realtà sia di tipo vampiresco, ma il sangue succhiato non serve ad appropriarsi del reale (i «bocconi monda­ni» non sono digeriti), bensì a nutrirsi delle proprie angosce e delle proprie ossessioni; voyeur e vam­piro di se stesso, lo scrittore contagia con la lente del proprio io-mostro tutto quanto viene catturato dalla sua penna: l’onanismo sembra essere, per Mari, uno stato permanente e ineliminabile dell’e­sistenza. Non stupisce allora il titolo del suo ultimo libro: Leggenda privata è infatti il racconto delle an­gosce e delle ossessioni di Mari bambino e adole­scente sul palcoscenico privato della casa (crono­topo familiare ai suoi lettori) infestata dai propri fantasmi, attraverso i quali si inscena il rapporto mostruoso che lo scrittore intrattiene con il proprio io, scisso, doppio, metà falso e metà vero. La strut­tura del libro – nonostante la facile ironia dello scrittore: «l’autofictiografia … Ho un po’ di nausea, scusate … » (p. 14) – è quella dell’autofiction: al rac­conto privato della vita famigliare di Mari, condot­to per via aneddotica e non lineare, ripercorso con memoria accurata e documentazione fotografica, si contrappone una cornice fantastica e un narra­tore che si dichiara esplicitamente menzognero e ammette di aver aggiunto del lievito romanzesco che scompagina la narrazione, la fa diventare leg­genda e impedisce che il patto di lettura sia quello autobiografico. Lo stesso ricorrere, a mo’ di ritor­nello, del «nacqui d’inverno» scandisce la narrazio­ne nel tempo ciclico della fiaba, in contrasto con la determinazione temporale (comunque raramente specificata); i verbi coniugati principalmente al passato remoto inseriscono il racconto nell’oriz­zonte, appunto, della leggenda. Entro questo oriz­zonte si collocano anche una serie di scene che non sono altro che il ribaltamento di immagini cri­stallizzate dalla tradizione letteraria, come quella del bacio della buonanotte che rimanda, per con­trasto, alla notissima scena che apre la Recherche. La Leggenda di Mari, al contrario di quanto il titolo rematico potrebbe in parte suggerire, è una storia fatta di atti mancati («il sesso mancato e dunque il sesso più vero», p. 32), di assenze (anche testuali at­traverso bianchi e uso frequente dell’aposiopesi), di feticci, oggetti perduti e ricordati nostalgicamente, di voyeurismo per attimi mai vissuti. L’io di questo li­bro guarda e racconta il suo mondo privato attraver­so le lenti della nevrosi e dell’angoscia, creando un racconto dell’orrore, con la necessaria sottolineatu­ra che «con orrore si intenderà qualcosa che ha a che fare molto da vicino con l’angoscia e anzi con la semplice tristezza, e dunque questo si aspettino da me, un romanzo triste/angosciato e dunque carat­terizzato da una certa quota di divertimento e di vir­tuosismo» (p. 19). Tutto è filtrato dall’ingombrante prospettiva narcissica del protagonista narratore, fi­no al punto che anche gli altri personaggi diventano funzioni strumentali alla sua rappresentazione. Il giovane Mari si muove in uno spazio triangolare cir­coscritto dal masochismo materno, il sadismo pa­terno e l’erotismo della giovane cameriera. A ognu­no di questi poli è associata una galassia di significa­ti contrastanti, che convivono e scindono l’identità del narratore. Su questa scissione Mari torna a insi­stere costantemente, trasferendola anche sul piano del corpo, in particolare nell’organo sessuale dopo la circoncisione: «pensare con trasporto erotico si­gnificava in ogni caso pensare con una certa dose di dolore, causato dal conflitto glande-prepuzio, io dis­sociato anche lì» (p. 77). Entro questi orizzonti il nar­ratore si trova chiuso in uno spazio claustrofobico e solitario, interiorizza un’impasse: «quella di chi tra­sferendo la bestia la ingabbia» (p. 57). L’unica solu­zione sembra essere il virtuosismo della scrittura, la potenzialità della finzione che assume un valore al tempo protettivo e conoscitivo: è solo nell’oltranza della finzione che l’io si scopre «più vero» (p. 88).

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