[Le bord de l’eau, Lormont 2016]
Medico di formazione, Daniel Oppenheim lavora ormai da molti anni sulle nozioni di memoria transgenerazionale, testimonianza indiretta, residuo mnestico e trauma ereditario. Dopo essersi occupato a lungo di bambini e adolescenti affetti da malattie croniche e, in molti casi, terminali, così come di accompagnamento e reinserzione di giovani “radicalizzati” – a quest’ultimo argomento ha dedicato, oltre che diversi contributi scritti, anche un ciclo di seminari destinato a sensibilizzare l’opinione pubblica francese ed internazionale -, in uno dei suoi libri più recenti torna ad affrontare di petto l’impatto delle catastrofi cosiddette “collettive” sul processo di maturazione e crescita dei nuclei famigliari. Facendo ricorso alla Shoah quale fenomeno paradigmatico per eccellenza, in questa raccolta di saggi Oppenheim tratta, da un lato, della fragilizzazione delle micro-strutture sociali operata dai sistemi totalitari con l’obiettivo di poter esercitare un’influenza maggiore sull’immaginario dei singoli, dall’altro, delle diverse strategie di resistenza messe in atto dalle vittime, nella speranza di poter preservare non soltanto l’integrità fisica, ma anche una qualche forma di equilibrio psicologico. Lungi dall’affrontare l’argomento in maniera trasversale e potenzialmente dispersiva, sin dalle primissime pagine l’attenzione è rivolta in particolar modo ai giovani. Forse più sprovveduti dei loro genitori, e nello stesso tempo creativi ed intraprendenti come gli adulti non sanno essere, a seguito di un’esposizione improvvisa alla violenza di massa, questi sembrano sviluppare sistemi di difesa che l’autore non manca di approfondire, avvalendosi sia delle conoscenze acquisite grazie all’esercizio clinico, sia di testimonianze – spesso, ma non esclusivamente – di natura letteraria.
Fra gli scrittori presi in esame, alcuni dei quali esplicitati nel titolo, l’israeliano Aharon Appelfeld gioca un ruolo determinante.Le sue prose sembrano infatti articolarsi tutte intorno al presupposto che, quando certe esperienze si fanno da piccoli, per il resto della vita non si possa che tentare di stabilire un dialogo fra passato e presente, situando il proprio trascorso in una sorta di limbo, dove solo sogni e visioni paiono in grado di riparare le fratture della Storia. In questa “terra di mezzo”, le narrazioni si alimentano reciprocamente, nella speranza di poter assimilare la “riformulazione” a un dispositivo retorico in grado di catturare (e “strutturare”), se non altro sul piano simbolico, quello che resta della “verità”. Di questo processo, Oppenheim sceglie di mettere in evidenza soprattutto le implicazioni filosofiche, privilegiando sia lo “studio di casi”, sia l’analisi a campione di documenti il cui valore non può che essere amplificato dalla dimensione comparatista dell’opera nel suo insieme. In fondo, sebbene ciascun capitolo rappresenti l’occasione per riflettere nei dettagli su aspetti diversi di uno stesso problema, quello che interessa l’autore non è tanto di ambire all’esaustività, quanto piuttosto di suggerire – tramite un ventaglio di esempi scelti anche perché complementari (si pensi, fra l’altro, alla coppia Appelfeld/Kertész)- la risposta a queste ed altre domande simili: perché, ma soprattutto per chi, è importante salvarsi, rimanere al mondo? A chi e di cosa bisognerà saper parlare “dopo”, nel tempo successivo alle ingiustizie subite? Quanto sarà più importante “ricostruirsi” invece che, eventualmente, “ricostruire”? Quale di queste due cose continuerà ad essere pensabile in assenza dell’altra?
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