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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Richard Linklater, Boyhood

[ USA 2014 ]

Si è parlato di Boyhood come del “film dell’anno” fin da gennaio, dopo la sua presentazione al Sundance Film Festival, e i bilanci critici di dicembre – non solo americani – hanno sostanzialmente ratificato questa precipitosa valutazione. Nonostante nelle sale siano circolate opere del calibro di Winter Sleep e, qualche gradino più sotto, Mommy, le preferenze sono andate al film di Richard Linklater. Ambientato in Texas, racconta la vita dai 6 ai 18 anni di Mason, cresciuto in una famiglia segnata dal divorzio dei genitori. Nella sceneggiatura non mancano punti deboli: le traiettorie di questi ultimi sono delineate un po’ grossolanamente – lui è irresponsabile, lavoricchia ma costruisce una nuova, felice famiglia; lei è premurosa con tutti, si sacrifica per la famiglia e il lavoro ma in amore le va tutto storto e alla fine resta sola. A conti fatti, la deriva alcolistica dei suoi due successivi mariti potrebbe sembrare il destino del maschio texano con un lavoro stabile. Tuttavia, questi e altri difetti, come i problemi che sorgono nella vita familiare di Mason, sono assorbiti in un movimento narrativo placido e avvolgente accompagnato da una godibile colonna sonora alternative rock, che rende la visione del film un’esperienza piacevole. Ma basta questo a farne una grande opera?

Boyhood è stato girato, con gli stessi attori, dal 2002 al 2013. Ora, se Mason e la sorella bambini e adolescenti fossero stati interpretati da due persone diverse, come accade di solito, sarebbe stata la stessa cosa? quanto hanno contato nella ricezione i racconti del regista sull’eccezionale lunghezza dei tempi di realizzazione? quanto ha contato la consapevolezza che 12 anni di riprese sono compressi in 165 minuti di proiezione? Direi, molto. Vedere un corpo che cambia davvero nel corso di una proiezione suscita un effetto potente. Del resto, la dimensione temporale è strettamente legata al dispositivo cinematografico. Quelle che vediamo sullo schermo sono immagini attraversate dal tempo. In passato è già capitato che la macchina da presa osservasse le stesse persone nel corso degli anni, sia nel documentario (Up Series, per la tv inglese) che nella finzione (dal ciclo Antoine Doinel di Truffaut alla trilogia dei Prima dello stesso Linklater), ma non era mai successo che il materiale finisse in un unico film. Il regista ha dichiarato di aver girato in 35 mm: 12 anni di vita impressionati su una pellicola. La valorizzazione di un elemento intimamente filmico (la registrazione del tempo: si vedano le riflessioni di Tarkovskij in Scolpire il tempo) e di un elemento extra-filmico (la narrazione epica delle riprese), convergendo, trasmettono allo spettatore la sensazione di aver a che fare con un evento storico.

Il passaggio del tempo, oltre che dai segni sui corpi e dalla parata di canzoni, è trasmesso dal susseguirsi di prodotti Apple, dai mutamenti tecnologici. Da questo punto di vista, con la “rivoluzione digitale”, negli anni in questione il dispositivo cinematografico ha vissuto un’accelerazione inedita dai tempi della transizione dal muto al sonoro. Senza evocare gli scenari proposti da The Congress, limitiamoci al “realistico” The Wolf of Wall Street, anch’esso uscito quest’anno: molte ambientazioni e comparse sono state create al computer, sono astratte. Boyhood sta dall’altra parte della barricata (anche se la pellicola è stata montata e distribuita in digitale). Come Holy Motors, il film di Linklater è soprattutto questo: un’elegia del cinema tradizionale.

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