[ il Saggiatore, Milano 2014 ]
Stati di grazia, opera seconda di Davide Orecchio, reca sulla copertina la dicitura “romanzo”, sicuramente in virtù del carattere onnivoro della categoria ma forse anche perché un’espressione più precisa per descrivere un libro del genere ancora non c’è. Quest’opera, infatti, fra le più importanti dell’ultimo decennio italiano, presenta una struttura narrativa complessa e una mescolanza di regimi discorsivi differenti. Se il precedente Città distrutte. Sei biografie infedeli (2012) mimava la biografia, Stati di grazia vuole essere una ricostruzione memoriale di un periodo storico, la dittatura in Argentina negli anni ’70, e di un fenomeno, le migrazioni dall’Italia prima e verso l’Italia poi di esuli e fuggiaschi. Ricostruzione compiuta attraverso l’invenzione di storie verosimili e l’utilizzo di una lingua e di uno stile iper-letterari.
Il “romanzo” si compone di una serie di racconti narrati in prima o in terza persona, tutti fortemente focalizzati su un personaggio e sulla sua parabola esistenziale. I protagonisti di questo affresco appaiono in più racconti, interagiscono fra loro e si scambiano il diritto di testimoniare le proprie storie private dentro la Storia collettiva, le ragioni del proprio sentire e quelle della resistenza rivoluzionaria, la militanza politica e i fallimenti relazionali. Sono storie di esili e di migrazioni, di partenze e di ritorni: il viaggio inizia in Sicilia, si compie in Argentina e finisce a Roma. Il registro tematico dominante è quello della violenza, con o senza sangue, perché a essere messa in scena è sempre l’ingiustizia: al dolore che ne deriva qui si risponde con furore rabbioso o tragica rassegnazione. Il susseguirsi di drammi e sofferenze rende cruda e indigeribile questa matassa ma allo stesso tempo restituisce la fiducia nel raccontare: la potenza di ogni storia è data infatti dall’abbandono con cui ogni personaggio si confessa, dallo scandaglio emotivo senza freni e senza indulgenza al quale si sottopone. Tutti le voci che impariamo a conoscere – i maestri troppo consapevoli per il loro bene, i sognatori incalliti dalla fatica in miniera, i medici inquieti artisti della fuga, le poetesse rivoluzionarie lacerate da ogni innamoramento – sono in realtà un’unica voce, che testimonia con le proprie cicatrici le violenze dello Stato e della Storia e mostra un’implicita fiducia nell’atto del racconto. A complicare e a rendere interessante questa pratica apparentemente documentaria sono la gestione del tempo narrativo da un lato e la costruzione della lingua dall’altro. Le prolessi prendono spesso la forma della visione e la cronologia lineare viene annullata dall’immobilità di un tempo già scritto. La sensazione costante di una predestinazione tragica rompe la linearità dell’investigazione (sciolta nell’Epilogo) e la rende inservibile. A questo movimento concorre una lingua precisa e allucinata, che nella forma reiterata dell’elenco e dell’accumulo di immagini e metafore costruisce il suo espressionismo a tratti lirico, a tratti epico. Il discorso è carico, pesante, nel senso che lascia un solco e impedisce uno scorrere agevole della lettura, stordisce e costringe a fermarsi: non c’è appagamento né conciliazione finale, ma solo la malinconica tenerezza degli “stati di grazia”, intervalla insaniae dei superstiti.
Alla fine del “romanzo” una sezione di “Materiali” raccoglie prima uno schema delle relazioni fra i personaggi del libro (sotto forma di voci di una piccola enciclopedia) e poi, dopo un’avvertenza autoriale molto significativa, una sorta di bibliografia discorsiva di temi ed eventi menzionati e raccontati nel libro, con corredo fotografico. Da un lato si struttura la fiction come se fosse un saggio, dall’altro si mostra il sostrato fattuale sul quale si innesta l’invenzione. In definitiva, dunque, se Stati di grazia è un libro riuscito e dall’impatto così forte è perché attraverso la trasfigurazione letteraria, finzionale, di un tempo storico, ci dice la verità sulle persone che lo hanno vissuto e che probabilmente vorrebbero raccontarlo così.
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