Paolo Zublena, “Giorgio Caproni. La lingua, la morte”
[Edizioni del Verri, Milano 2013]
Sin dai suoi esordi, la scommessa di Giorgio Caproni è stata quella di incardinare i propri testi su un numero contenuto di macrotemi, spesso immediatamente riconoscibili. E pur di restare in scena, talvolta, questi temi hanno dovuto accettare anche di essere rimodellati non poco. Nel suo ultimo libroPaolo Zublena riflette da vicino, come indica lo stesso titolo, sulla tematizzazione della morte nei versi del poeta livornese.
Da questa prospettiva Cartoline da Vega, il primo dei cinque saggi che compongono il volume (saggio apparso in precedenza su rivista), individua due tempi nella parabola caproniana. Ad una prima fase incentrata sulla «personale esperienza del lutto» fa seguito, dagli anni Sessanta in poi, una seconda fase, con la spersonalizzazione del lutto, che adesso è installato «stabilmente nel soggetto come un’assenza originaria» (p. 14). Eppure – suggerisce ancora il titolo del libro – in Giorgio Caproni. La lingua, la morte la critica tematica è agganciata all’analisi linguistico-stilistica, per una cooperazione fruttuosa delle due. Ecco allora Segnali di vuoto, il secondo dei saggi raccolti, in cui Zublena mostra come nell’ultimo Caproni la deissi e l’anafora, paradossalmente, diventano «manifestazioni dell’assenza, o vuoti che danno una forma linguistica alla perdita» (p. 85). Si tratta di pagine di estremo interesse non soltanto per chi si occupa di Caproni, ma più in generale per i lettori della poesia italiana del secondo Novecento abituati a fare i conti con la sfuggevolezza dell’ancoraggio referenziale dei testi, e con il traballare, nei componimenti, della coesione e della coerenza.
Il libro di Zublena però offre importanti spunti anche per chi si interessa della figura del poeta-traduttore, di cui Caproni ha vestito i panni. Come altri grandi nomi della sua generazione (pensiamo a Sereni) Caproni ha tradotto, un po’ per caso un po’ per scelta, voci anche molto diverse dalla sua. Il confronto puntuale tra alcuni testi di Jean Genet e poesie tratte da Il muro della terra, Il franco cacciatore, Il conte di Kevenhüller, mette in luce elementi di tangenza. Genet, è l’ipotesi di Zublena, ha avuto un ruolo centrale nell’acutizzarsi, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, dell’indagine sul male e sulla violenza. Molto convincente, a tal proposito, è il lacerto dell’intervista di Caproni su Céline a cui lo studioso ricorre per argomentare la sua tesi. Chi traduce gli «autori meno congeniali», dice Caproni, è obbligato a esplorare territori «della propria coscienza […] che altrimenti probabilmente sarebbero rimasti per sempre addormentati». Il poeta, insomma, «sveglia il traduttore» (p. 122).
Posto in chiusura, il saggio Lettura di «Res amissa» dà un contributo importante allo studio dello «scambio bilaterale» tra Caproni e Agamben, autore del seminario Il linguaggio e la morte a cui il titolo di Zublena rimanda apertamente. Giorgio Caproni. La lingua, la morte, dunque, anche in ultima battuta torna sul rapporto tra Caproni e la filosofia, questione già affrontata in altri luoghi del libro passando per lo stanco interrogativo della pertinenza o meno dell’etichetta «poeta-filosofo».
Per molti anni è stato lamentato un disinteresse della critica per Giorgio Caproni, considerato un autore ingiustamente trascurato. Oggi, invece, ci appare tra gli autori della sua generazione, la terza, nel numero dei più studiati. A questa bibliografia in crescita, Paolo Zublena, indagando soprattutto l’ultima fase della parabola dell’autore, aggiunge adesso un tassello prezioso.Â