John Williams, “Stoner”
[trad. it. di S. Tummolini, Fazi, Roma 2012]
Pubblicato con scarsa eco nel 1965, Stoner di John Williams è diventato negli ultimi anni un vero caso letterario; eppure sin dalle prime asettiche righe l’autore sottolinea quanto la vicenda narrata sia scialba e trascurabile. Nato nel 1891 da una famiglia di contadini poverissimi, mandato a studiare Agraria nella vicina Università del Missouri, William Stoner verrà travolto da un evento che cambierà la sua vita: la scoperta improvvisa ed epifanica, durante un corso obbligatorio di Letteratura Inglese, del significato di un sonetto di Shakespeare. Si tratta del sonetto LXXIII, dedicato all’autunno: «In me tu vedi quel periodo dell’anno / Quando nessuna o poche foglie ancora resistono / […] Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce / Per farti meglio amare ciò che dovrai lasciar fra breve».
Stoner abbandonerà il suo corso di studi, conseguirà una laurea in Lettere, un dottorato e nel 1918 verrà assunto come ricercatore nello stesso dipartimento. Avrà una mediocre carriera e morirà nel 1956, ricordato da pochi. Eventi minori segneranno la sua vita: un matrimonio sbagliato, un rapporto infelice con la figlia, un amore abbandonato, uno scontro accademico di modesta portata. Dai margini del piccolo campus universitario, come protetto da una bolla, William Stoner attraversa una Storia ben più lacerante (due guerre mondiali, il disastroso crack del ’29) che solo a tratti irrompe nella narrazione, proiettando i suoi riverberi sulle esistenze dei personaggi.
Il fascino del romanzo di Williams risiede nella sua capacità di racchiudere in una circolarità perfetta il senso di questa vita marginale, attribuendole un valore quasi paradigmatico. L’esistenza di Stoner ruota attorno ad una contraddizione fondamentale: l’attimo epifanico segna lo sradicamento dal mondo familiare e l’uscita da uno stato di “cecità”, per scoprire nella letteratura la passione del significato; e tuttavia perdura in Stoner una passività ereditaria, sedimentata già nel nome, l’«etica stoica» degli avi contadini pronti a «opporre al mondo tiranno visi sempre inespressivi», “pietrificati”. Il rapporto tra l’io e il mondo oscilla allora tra desiderio e indifferenza, tra vitalità e rassegnazione; tra la capacità di «comprendere qualcosa» rivelata dalla letteratura e l’opacità residua che continua a caratterizzare la relazione con gli altri.
La perizia stilistica di Williams restituisce il contrasto all’interno della scrittura stessa: l’uso frequente di aggettivi inattesi o ossimorici definisce con esattezza i conflitti psicologici interni («provava un senso di remota pietà, amicizia riluttante e rispettosa consuetudine», p. 118); all’avverbio smorzante, al commento disforico («riusciva persino ad essere felice, di tanto in tanto», p. 149) l’autore unisce un sentimento lirico di commozione per le vicende umane («vedeva uomini dagli occhi vuoti come schegge d’un vetro infranto», p. 254). La posizione variabile del narratore, tra onniscienza, focalizzazione interna fissa sul protagonista e oggettiva esterna, i dialoghi lasciati in sospeso, lo straniamento, costruiscono una strategia testuale che induce nel lettore una continua tensione al senso, perennemente frustrata, permettendogli di intravedere le forze psicologiche che dominano i rapporti tra i personaggi, senza mai riuscire ad afferrarle nella loro interezza.
«Nulla mantiene ciò che promette», scrive Roth nel Teatro di Sabbath. Così in Stoner assistiamo alla dialettica tra kairos, il tempo epifanico della rivelazione e della promessa, e chronos, il tempo ciclico e divoratore in cui nessun attimo può fermarsi. Eppure, al rimpianto flaubertiano, il romanzo di Williams arriva infine ad opporre una diversa sintesi. L’imperfetta saggezza rivelata a Stoner dal sonetto shakespeariano (lo nota già D. Brogi, Il mistero di un romanzo perfetto: Stoner di John Williams, in «Le parole e le cose», 5 novembre 2013, http://www.leparoleelecose.it/?p=12699) consiste infatti nella capacità di riconoscere e amare la temporalità umana proprio nei suoi tratti di transitorietà, finitudine ed incompiutezza. Questo forse il segreto di quell’incerto sentimento, «una sorta di gioia», col quale il lettore chiude il romanzo, e Stoner la sua vita.