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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Giovanni Jervis, Il mito dell’interiorità

[ a cura di G. Corbellini e M. Marraffa, Bollati Boringhieri, Torino 2011 ]

Il libro postumo di Jervis è curato dai suoi ultimi collaboratori. Corbellini è co-autore del discusso pamphlet La razionalità negata (2008), che fa i conti con 30 anni di psichiatria.

È in corso un confronto serrato sull’eredità culturale di questo grande intellettuale, noto per l’impegno di rinnovamento psichiatrico, ma capace di andare oltre lo specifico campo tecnico (psicoanalisi, politica, epistemologia). Infatti il sottotitolo è Tra psicologia e filosofia.

Consta di 9 capitoli: sono saggi poco noti, alcuni inediti, con un arco temporale dal più antico del 1962, sulla collaborazione con l’antropologo marxista De Martino, fino al dattiloscritto del 2008, Retoriche dell’interiorità: faceva parte dei materiali preparatori di un libro, in progress con Marraffa, sul «mito dell’interiorità, rivisto con un occhio ai materialisti del Settecento e un altro ai comportamentisti del Novecento».

Il libro tenta di colmare il vuoto di un progetto, troncato dalla morte, che ci porta dentro il laboratorio di Jervis: il continuo sottoporre a verifica critica ogni fatto o principio per stabilirne un grado sempre provvisorio di credibilità, valore e veridicità. I curatori scrivono l’introduzione (Marraffa) e la postfazione (Corbellini) con un apparato di note puntuale che connette il percorso qui proposto con le opere precedenti.

L’idea, il filo rosso del libro, è che la coscienza, in altre parole l’Io dell’apparato psichico freudiano e della psicopatologia e filosofia occidentali, è una «facciata» – come diceva Freud – o meglio un’illusione, che non ha base “sostanziale” nel cervello, una struttura narrativa che serve più a giustificare i comportamenti che a spiegarne le motivazioni: un insieme precario di funzioni sotto assedio delle istanze biologiche e dell’appartenenza al gruppo sociale.

Non è solo un’ipotesi filosofica, o una “metafora” psicologica, ancora utile per Jervis per il lavoro clinico, ma è il risultato di molte evidenze scientifiche che costruiscono una continuità tra il cervello animale, quello dei primati e l’evoluzione di quello infantile, con un richiamo continuo al darwinismo. Ogni percorso riflette l’ipotesi di chi lo traccia: mi sembra condivisibile il riferimento dell’evoluzione del pensiero di Jervis verso la psicologia sperimentale e le “scienze cognitive” (Marraffa), ma non si può sostenere una sua annessione alla psicologia cognitiva (pp. XXIII-IV) a spese della sua formazione e pratica psicoanalitica, il cui carattere conflittuale e materialistico Jervis ha sempre difeso.

Mi pare condivisibile la lettura di Corbellini, che rivendica una sostanziale continuità del pensiero di Jervis, capace di utilizzare «qualunque strumento teorico, o pratico sulla base della coerenza logica o della consistenza metodologica» (p. 223), ma è frettoloso liquidare la formazione marxiana dell’autore, che sarebbe stato indotto dal proprio orientamento critico «a intraprendere una riflessione da cui scaturiva che le premesse del marxismo, benché forse desiderabili […], erano non di meno del tutto sbagliate» (ibidem).

Jervis ha continuato a riconoscere l’opera di Marx nella costruzione delle «società democratiche » (Pensare dritto, pensare storto, 2007, p. 66), soprattutto è essenziale nell’idea per lui portante che la mente umana è capace di autoinganni, il riferimento alla definizione di ideologia e di falsa coscienza di Marx (Fondamenti di psicologia dinamica, 1993, pp. 326-27). Espungere dai riferimenti bibliografici ogni riferimento a Marx mi sembra un tantino “peloso” per accreditare l’approdo di Jervis al «pensiero evoluzionista darwiniano».

Il percorso teorico originale di Jervis anche qui emerge come un materialismo critico con riferimento a una linea di pensiero purtroppo minoritaria nella cultura italiana, che valorizza la continuità tra le scienze della natura e le scienze umane e va da Galileo a Leopardi, a Labriola, a Timpanaro, di cui c’è un grande bisogno nella crisi sociale, morale, civile e culturale del nostro povero paese.

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