[Canada-Deutschland-UK 2011]
A Dangerous Method è un film che si suppone parli di psicoanalisi anzi, ancor più ambiziosamente, dello sviluppo del pensiero psicoanalitico dall’intrico di relazioni tra Freud, Jung e una paziente di quest’ultimo, Sabina Spielrein. La sceneggiatura sembra però ricavata, invece che dal Diario di una segreta simmetria (1980), il libro in cui Aldo Carotenuto ha per primo pubblicato il carteggio tra i tre protagonisti, da una rapida scorsa a una qualche Pshychoanalysis for Dummies.
Il film offre una rappresentazione della psiche che non sfigurerebbe in una fiction di Mediaset, a partire dal suo nucleo pruriginoso, il masochismo sessuale di Sabina – peraltro pudicamente risolto in un paio di sculacciate di scarsa temperatura erotica – che fa problema non tanto perché privo di riscontro nelle fonti, quanto perché l’invenzione narrativa, attraverso l’automatismo con cui ricava il comportamento adulto dall’archeologia psichica, testimonia di una visione dei movimenti interni triviale e semplificata: il film non sviluppa nessuna catena di mediazioni simboliche tra il nodo nevrotico della paziente, inverosimilmente confessato alla primissima seduta di talking cure, e il suo acting out nella pratica sessuale.
Dello sconfinato, magmatico, inquietante territorio in cui si muovono i pionieri della psicoanalisi Cronenberg non sa restituirci le dimensioni né di fascino né di terrore; tanto meno sa mostrarci come dall’iniziale goffaggine, dall’inciampo continuo in vere e proprie mine sentimentali ed emotive, si sviluppino un pensiero e una prassi di cura, e come dalle relazioni private, intensamente pulsionali e intellettuali, tra Jung, Freud e Spielrein si siano generati alcuni monumenti del pensiero del Novecento.
Questo «metodo pericoloso» fa rimpiangere il pur modesto Prendimi l’anima di Roberto Faenza (2002), che non può certo competere con la scenografia e i costumi dell’accurata ricostruzione storica di Cronenberg, ma almeno tratta con mano più gentile una storia tanto affascinante quanto facile da banalizzare, e sceglie di non abbandonare Sabina all’epilogo della relazione con Jung, ma di seguirne le tracce in Unione Sovietica, consentendoci di gettare uno sguardo sulla sua crescita intellettuale e di terapeuta.
Faenza tralascia del tutto, invece, il terzo attore della vicenda ricostruita da Carotenuto, Freud, la cui rappresentazione – insieme a quella del suo legame con Jung – costituisce l’unica nota positiva del film di Cronenberg. Il singolare Freud inventato da Viggo Mortensen – mai inquadrato senza il suo sigaro, invidioso della ricchezza dell’allievo, preda di una paranoia da troppo recente sortita dal ghetto, insieme fragile e autoritario – è molto più simpatico dello Jung impersonato da Michael Fassbender, che risulta un tipico filisteo borghese, prigioniero di un matrimonio di interesse, tormentato ma incapace di scelte vitali.
E questo personaggio invischiato nel più trito plot adulterino sarebbe «il più grande psicologo del mondo», come proclama la didascalia alla fine del film? Non meno imbarazzante è la Sabina di Keyra Knightley, che forse, emulando le molteplici interpretazioni Actors Studio di persone affette da handicap fisici o mentali premiate in passato, mirava all’Oscar. Nessun aiuto, d’altra parte, le giunge dalla sceneggiatura, che non prevede transizioni tra il personaggio che entra in scena urlando e ficcandosi la mano tra le gambe, e l’intellettuale sobria e composta che discute con Jung e Freud dell’istinto di morte.
Al triangolo dei protagonisti si dovrebbe aggiungere l’Otto Gross di Vincent Cassel: questi è però, più che un personaggio, una mera funzione attanziale, il grimaldello ideologico per scardinare gli scrupoli monogamici di Jung. A Dangerous Method finisce per essere l’ennesima trivializzazione della psicoanalisi, giocata sull’“umano, troppo umano” dei suoi fondatori e su una rappresentazione ammiccante dei rapporti di transfert e controtrasfert.
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