[a cura di William Marx, PUF, Paris 2008]
Riedito a circa quattro anni di distanza dalla sua prima pubblicazione, e collocato per l’occasione in una nuova sede editoriale – la prestigiosa collana «Quadrige» delle Presses Universitaires de France – il volume di William Marx riunisce, in una versione riveduta e corretta, benché priva di modifiche sostanziali, le riflessioni emerse durante la tavola rotonda conclusiva del convegno Qu’est ce qu’une arrière-garde?, tenutosi a Lione nel maggio del 2003. Suddivisa in tre sezioni, l’opera ospita un totale di quindici interventi che, se da un lato tendono a sottolineare l’importanza dell’esercizio filologico nei processi di attualizzazione delle fonti letterarie, dall’altro rivendicano con vigore la possibilità d’interpretare la storia intellettuale europea non più come «una successione di rotture», ma quale «sofisticato gioco di rimandi, dis-continuità e variazioni sul tema».
Al centro del dibattito, in aggiunta ad una scrupolosa valutazione degli orientamenti critici recenti, viene riservato uno spazio piuttosto ampio alle considerazioni di tipo estetico. La tecnica dell’analisi a campione, il “corpo a corpo” con gli scrittori affrontati, l’insistenza sui fatti di natura formale, laddove si prestino a diventare spia di qualcos’altro, sono solo alcuni degli strumenti attraverso cui suggerire l’inattendibilità di tante costruzioni culturali, fondate sulla presunta «subordinazione dell’antico ai segni precursori della modernità».
Infatti, come sembrano voler dimostrare le dettagliate indagini condotte da Hugo Friedrich, Michel Décaudin e Thomas Pavel, i cui saggi di teoria del romanzo costituiscono un sottotesto imprescindibile alla comprensione dell’intero libro, se le intenzioni di tanti movimenti artistici cosiddetti d’avanguardia sono rivolte alla dissoluzione delle tecniche e dei contenuti canonici, è pur vero che un simile progetto non si realizza nel rifiuto totale del passato, bensì in un recupero di paradigmi già esistenti, piegati alla necessità di un rinnovamento stilistico. Su quest’ultimo punto insiste, tra gli altri, anche Antoine Compagnon. Nel suo contributo, disposto in apertura della seconda parte, questi si interroga sulla posizione del critico fra mondo e testo; osserva come l’attenzione al mondo non sia tanto un obbligo morale a cui assolvere a latere del proprio mestiere, ma il principio informatore dello stesso impegno intellettuale; conclude mettendo in discussione una volta per tutte l’assunto secondo cui «vivere nel proprio tempo significherebbe essere proiettati in avanti».
Una traiettoria analoga sembra potersi individuare anche nelle riflessioni di Charles Péguy, Jean Paulhan e Roland Barthes intorno alle coppie, spesso solo apparentemente antinomiche, vecchio/nuovo, passato/presente, arrière/avantgarde. Definite l’una in funzione dell’altra, esse rappresentano per ciascuno degli autori presi in esame una sorta di alternativa di fronte alla quale, almeno in un primo tempo, non ci si può esimere dal difendere una posizione. Così, per Péguy e Paulhan si è trattato di rifiutare “la metafisica del progresso” in virtù di un impegno destinato a realizzarsi ai margini di ogni più manifesto atto di resistenza; per Barthes, come per Bergson, ritornare alla tradizione ha significato ammettere, nonostante l’inadeguatezza della lingua rispetto alla complessità del reale, un incontenibile bisogno di affidare alle parole l’eventualità, seppur remota mai completamente abbandonata, che se un senso esistesse, non potrebbe che celarsi fra le pieghe di un discorso.
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