[Quodlibet, Macerata 2007]
Originario della Martinica, Édouard Glissant rappresenta senza dubbio una delle voci più interessanti della letteratura post-coloniale in lingua francese. Allievo di Aimé Cesaire, Glissant lascia il suo paese natale nel 1946, alla fine del liceo, per proseguire gli studi a Parigi ed iscriversi alla Sorbona. Gli anni dell’università sono pieni di incontri preziosi e collaborazioni importanti, di spericolate avventure editoriali e di impegno politico anticolonialista. È in questa fase che maturano le prime riflessioni teoriche di carattere più spiccatamente antropologico, favorite dall’influenza di Roland Barthes. Accanto alle poesie, ai romanzi e ai testi teatrali, esse costituiscono un modo per far capire alla comunità accademica i problemi posti dalla presunta unicità del pensiero euro-occidentale.
Tema ricorrente dell’intera opera di Glissant, il tentativo di mettere in discussione i paradigmi estetici ed interpretativi dominanti si traduce, da un lato, nell’esigenza di criticare la categoria di storia quale concatenazione causale di eventi, dall’altro, nello sforzo di rendere manifesta la parzialità di ogni costruzione culturale. Un proposito simile ha bisogno di uno spazio dialettico nuovo per realizzarsi; uno spazio dove coltivare le ambiguità anziché scioglierle, e dove comprendere le antinomie anziché evitarle. E non è un caso se la critica all’idea secondo cui le alterità sarebbero tutte ugualmente comprensibili attraverso le istanze ordinatrici della ragione diventi uno dei problemi intorno ai quali si sviluppano le tesi più significative di Poetica della Relazione.
Parte integrante e valutativa di un più vasto progetto d’insieme, il volume si compone di venti interventi, suddivisi per nuclei tematici in cinque sezioni distinte. I testi raccolti alternano brani di respiro dichiaratamente autobiografico, pezzi di natura saggistica, divagazioni e note in forma di luoghi-comuni. Sebbene ciascuno di essi lasci trasparire una fitta rete di parentele con alcuni fra i maggiori esponenti del post-strutturalismo europeo, l’originalità dei concetti che vi si trovano espressi conserva comunque una sostanziale autonomia e nasce da un profondo sentimento d’appartenenza alla specificità caraibica.
Articolato in una sorta di movimento spiraliforme, fatto di allontanamenti e variazioni sul tema, il discorso filosofico di Glissant rivendica strenuamente il «diritto all’opacità», ossia ad una «divergenza esultante delle umanità», ad una «singolarità non riducibile» che, come osservava giustamente Alessandro Corio, «negando i presupposti del cosiddetto autismo identitario, ponga le basi di un divenire di scambio continuo con l’altro». Sul piano formale, Glissant privilegia una scrittura di tipo aforistico, che pur non rinunciando alla componente argomentativa, si sottrae al rischio di configurarsi in un sistema chiuso.
Quanto al continuo ricorso alla metafora, se è vero che si tratta di un espediente attraverso cui “parlare per immagini”, è altrettanto possibile ch’essa rappresenti un mezzo grazie al quale stabilire dei legami intertestuali forti. Infatti, se ogni singolo contributo costituisce una sorta di palinsesto, in cui si afferma una cosa per lasciarne emergere un’altra, allora può darsi che il senso dell’operazione non vada ricercato esclusivamente nelle parole, ma anche nei silenzi, in quel non-detto che si cela tra un capitolo e il successivo, nel gioco misterioso degli accostamenti.
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