allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Alberto Raffaelli, La comparseria. Luigi Pirandello accademico d’Italia

[ Franco Casati Editore, Firenze 2018 ]

È una ricerca scrupolosa e assai ben documentata quella che Alberto Raffaelli ha condotto negli archivi dell’Accademia d’Italia, allo scopo di illuminare meglio il ruolo di Pirandello in quella che fu la più prestigiosa istituzione culturale del fascismo, nell’arco di otto anni, dal 1929 fino alla morte.

Istituita da Mussolini nel 1926, come parte integrante e di spicco di un più ampio progetto culturale, l’Accademia diventò presto la borsa valori in cui il capitale simbolico intellettuale si convertiva in capitale economico, grazie a emolumenti, elargizioni di premi e occasioni di visibilità per letterati e studiosi (notevole il caso di Rosso di San Secondo, che, pur non essendo membro dell’Accademia, vinse, anche grazie a Pirandello, il ricco Premio Mussolini da essa istituito e ricevette complessivamente dallo Stato oltre 150.000 lire in dieci anni). In modo non diverso da quanto avveniva negli stessi anni nella bolscevica Unione sovietica, dunque, il fascismo produsse egemonia culturale a fronte di un cospicuo finanziamento governativo, e l’Accademia d’Italia divenne il centro nevralgico di tale sistema.

Raffaelli analizza nel dettaglio le diverse fasi del rapporto dello scrittore con l’istituzione, dall’amarezza per la ritardata nomina lamentata nelle lettere private fino all’organizzazione del grande convegno Volta sul teatro drammatico del 1934, uno dei pochi eventi ai quali Pirandello partecipò attivamente e in prima persona, insieme alle celebrazioni verghiane di tre anni prima. Per il resto, tuttavia, i registri delle presenze parlano chiaro: alle riunioni è raramente presente, e spesso non giustificato, perché impegnato altrove (anche fuori d’Italia) per seguire le proprie rappresentazioni teatrali.

Eppure non erano solo una “comparseria” quelle adunanze in feluca e uniforme alla Farnesina, non erano solo una buffonata in costume quelle lunghe sessioni nelle quali si decideva a chi attribuire un premio o uno scranno. No, al di là dell’avversione di Pirandello per le convenzioni e le forme, egli comprese da subito che essere un membro dell’Accademia significava ottenere un riconoscimento esplicito del proprio valore di scrittore (è un Leitmotiv che ritorna nelle lettere a Marta Abba) e quindi un riconoscimento (anche economico) da parte del regime. Un regime che peraltro mostrò non di rado un atteggiamento ambiguo nei confronti di quello che era, insieme a D’Annunzio, l’autore italiano più rappresentativo anche fuori dai confini nazionali.

Colpisce, ad esempio, lo scarso impegno dell’apparato diplomatico nel 1934, al momento della candidatura al Nobel, e colpisce ancora di più la scarsa eco che il conseguimento del premio ebbe in Italia a fronte delle numerose e partecipate celebrazioni europee. Tutto ciò non si spiega solo con l’invidia di Mussolini (in odore di candidatura lui stesso, in quegli stessi mesi, nientemeno che per il Nobel per la pace…) ma è il sintomo della fine di un idillio e soprattutto della fine di un’epoca. Giunto da tempo il momento di sbarazzarsi della componente movimentista (quella culturalmente, se non altro, più affine all’ideologia pirandelliana), il fascismo stava ormai serrando le fila e andava imponendo direttive culturali più ferree alle arti potenzialmente di massa come il teatro. E quel teatro sempre più astratto e allegorico prodotto dal genio pirandelliano negli anni Trenta poteva legittimare il sospetto, se non di una vera e propria critica alla dittatura, di un’arte sempre meno interessata a propagandarne i valori culturali e, in ultima analisi, politici.

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