[ il Mulino, Bologna 2014 ]
Si può vedere in questo libro piccolo ma ad alto peso specifico di Emanuele Coccia un esperimento, un’estensione coerente all’ambito etico (e alla cornice sociale delle grandi città), anche a costo di qualche «intelligente esagerazione», com’è stato scritto, delle conclusioni a cui Coccia era giunto nel libro precedente, La vita sensibile, del 2011. Lì Coccia costruiva, nella cornice di un pensiero dell’identità spiccatamente antisostanzialista, una «metafisica della veste» che vedeva il corpo anatomico immediatamente articolato con un secondo corpo, prostetico ornamentale e virtuale, fatto di oggetti. Questo corpo è la sede di una sorta di chiasma concettuale, perché in esso l’uomo si appropria dell’estraneo, ma anche aliena la propria intimità in un costume perfettamente pensabile e ripetibile senza quel sé che in un dato momento lo indossa. E se la vita può definirsi solo ricorrendo a questa dimensione supplementare che chiama in causa altri corpi, aggiungeva Coccia, allora la vita è definibile soltanto in termini etico-morali, e non ontologici.
Il nuovo libro riparte da qui, con lo stesso stile filosofico dai morbidi panneggi e dagli insistiti, talvolta perfino troppo, rovesciamenti concettuali chiusi da formule di sintesi sorprendenti e spesso felici. Riparte dagli oggetti in cui ci proiettiamo e che facciamo nostri, e si chiede quale sia oggi lo statuto di tutti questi oggetti; la risposta ovvia è che si tratta di merci. Se dunque noi cerchiamo il nostro ethos e il nostro bene, la nostra felicità, negli oggetti, allora la merce «è l’ultimo nome del bene»: il gesto fondamentale del libro sta nell’assumere non ironicamente e nello sviluppare questa posizione.
Il calligramma sulla copertina, e la riscrittura, con cui il libro prende avvio, degli incipit del Capitale e della Società dello spettacolo, dicono quanto sia importante anche per Coccia la natura di immagine con cui la merce, oggi come ieri, si presenta al popolo dei consumatori. Buona parte del libro è dedicata a descrivere il panorama urbano, e soprattutto quella che si potrebbe chiamare la pelle della città, i muri ricoperti dalle grandi insegne pubblicitarie. Non ha importanza, dice Coccia, che il mondo a cui le pubblicità sembrano riferirsi non esista (qui si percepisce bene l’insistenza sull’etica ai danni dell’ontologia), ciò che conta è che le pubblicità suggeriscano norme di comportamento o dettino stili di vita illustrando le merci come «intensità morali», capaci di muovere la nostra immaginazione. È un «catechismo anonimo» quello che ci si rivolge dai muri, la superficie animata della città, supporto inorganico che si fa medio di trasmissione in quella che l’autore chiama, con una delle sue formule più riuscite, «mineralogia dello spirito».
Secondo Coccia il fatto che proprio le merci abbiano sostituito dèi, eroi e cosa pubblica sui muri delle città non può essere casuale, e testimonia che la mercificazione degli oggetti non risponde solamente alla necessità di vendere. Il valore dell’oggetto-merce non scompare all’atto del suo acquisto. In uno dei passaggi più estremi, l’autore, in piena fedeltà al suo libro precedente, afferma che nel rapporto con le cose si condensa «l’intero essere al mondo dell’uomo»: nel consumo l’uomo «costruisce il proprio mondo», dando nel contempo evidenza alle categorie culturali che lo informano, e il rapporto con le cose contribuisce a cambiare il volto del mondo («cosmologia mobile» è dunque tale rapporto, con quel gusto della stilizzazione dell’eccesso che il lettore impara presto ad aspettarsi).
A un allargamento del quadro di ricerca corrisponderebbe probabilmente l’attenuazione di tesi che qui suonano un po’ perentorie. Ma studiare, mettendo la sordina ai molti giudizi negativi pronunciati dal pensiero novecentesco, la «morale integralmente intramondana» proposta dalla pubblicità e dal suo «paradiso di cose» è un tentativo che merita il più grande interesse.
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