[ trad. it. di L. Flabbi, L’Orma, Roma 2014 ]
Quello della posizione sociale, della sua conquista o della sua perdita, è un tema ossessivo della cultura francese almeno a partire dalla Rivoluzione. L’esigenza di ripercorrere la propria traiettoria misurando quanto si è conquistato – e perduto – ha generato prodotti straordinari, non solo in letteratura, da Stendhal al Bourdieu dell’Esquisse d’une autoanalyse. La Place (1983) sembra scritto meditando La Distinction (1979): «Quando ho cominciato a frequentare la piccola borghesia di Y* la prima cosa che mi è stata chiesta è stata quali fossero i miei gusti, il jazz o la musica classica, Tati o René Clair, e questo era abbastanza per farmi capire che avevo compiuto il passaggio a un altro mondo». Il titolo di questa «autosociobiografia» è ricercatamente polisemico: il «posto» è quello che il padre – senza nome, dunque: un padre, nato intorno al 1900 – ha occupato nello spazio sociale fino a diventare gestore di un bar-alimentari alla periferia di una cittadina di provincia; ma è anche quello che la figlia scrittrice, l’io narrante, assegna al padre nella propria memoria, ricostruendone il mondo attraverso la scrittura.
La narrazione inizia dalla fine, dal 1967, anno della morte del padre e del concorso della figlia, che diventa «professoressa». Il concorso è il rituale di passaggio par excellence con il quale lo Stato, conferendo un titolo, sancisce l’accesso a posizioni sociali più prestigiose (non a caso la prova d’esame verte su Papà Goriot). La prima parte del testo descrive la faticosa ascesa del padre dal medioevo del bracciantato agricolo alla piccola borghesia commerciale: il negozio, la Renault 4, la casa di proprietà. La straordinaria seconda parte racconta invece gli ultimi anni del padre ormai arrivato (in francese: parvenu) attraverso gli occhi della figlia, che adesso è a sua volta in piena traiettoria ascendente: l’università, il concorso, il matrimonio con un uomo «pieno di diplomi, costantemente “ironico”», l’appartamento con «l’elegante secrétaire Luigi-Filippo, le poltrone in velluto rosso, l’impianto stereo». Come il padre si era vergognato del suo passato contadino e operaio, rinnegando il dialetto per un francese standard sgrammaticato e coprendo la tradizionale facciata a traliccio del bar con intonaco bianco e un’insegna al neon, così la figlia si vergogna del suo passato incolto e bottegaio. Pagine scabre e dolenti, che nulla perdono nella trasparente traduzione di Lorenzo Flabbi, descrivono il progressivo differenziarsi degli habitus, l’estraneazione della figlia dal padre.
L’architettura del racconto, per cui l’io narrante di oggi (1982-83) osserva l’io narrante di allora (1956-67) e ne mette in discussione il giudizio sul padre, deve qualcosa a Riflessioni su Christa T. di Christa Wolf, per la quale Ernaux non nasconde la sua ammirazione, e in effetti corrisponde all’intento politico della scrittrice: rendere giustizia al mondo sociale che ha dovuto tradire. Eppure il testo nel complesso non sta dalla parte del padre, che resta oggetto senza diventare personaggio, ma rimane interamente dalla parte dell’io narrante, l’unico soggetto, che pur esprimendo vergogna e sofferenza per il tradimento non rinuncia alla poltrona di velluto rosso, né mette in discussione l’avanzamento sociale infinito che impone a ogni generazione di rinnegare le proprie origini per accedere a uno status superiore, pena il fallimento. Questa ambiguità, che non si riscontra nel modello (in cui l’io narrante facendosi carico della verità di Christa T. mette in discussione i propri valori e con essi il paradigma sociale vigente), si manifesta a livello stilistico nella scelta di un’antiromanzesca «scrittura piatta», che Ernaux considera scevra d’artificiosità letteraria. Ma poiché la scrittura di uno scrittore non può che essere artificio, questa ricercata piattezza rischia di solleticare la coscienza infelice di certi lettori, socialmente assai più prossimi a Annie Ernaux e a noi, che non al suo o ai nostri padri. Il posto ci invita così a meditare sul nostro tradimento, ma, recitato il mea culpa, ci lascia al nostro posto.
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