Alessandro Rossetto, “Piccola patria”
[Italia, 2013]
Piccola patria è per certi aspetti un film coraggioso. Racconta, con uno stile anticonvenzionale e senza ricorrere a un vernacolo addomesticato, un’area dell’Italia poco esplorata dal cinema: la provincia veneta. Ed è un film ambizioso, l’esordio nella finzione del documentarista padovano Alessandro Rossetto. Le riprese si sono svolte in Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia; i personaggi parlano diverse varietà di dialetto. Le riprese aeree che aprono e chiudono il film – accompagnate da una potente composizione corale di Bepi De Marzi – sono come la copertina di un libro in cui si vuole raccontare in modo corale il profondo Nord Est. La narrazione “debole” e la giustapposizione, senza soluzione di continuità, di immagini documentaristiche e finzionali sembrano mirare alla presentazione, più che alla rappresentazione, della realtà sociale nel suo manifestarsi.
E in che modo si manifesta questa realtà? Come abiezione e ambivalenza. Luisa, la protagonista, e Renata, l’amica, sono eterosessuali ma criptolesbiche. E soprattutto affamate di denaro. Rino, impotente, paga Renata per abborracciare dei giochi erotici e partecipa a quelli, più riusciti, fra Luisa e l’ignaro fidanzato (che viene, appunto, bendato). Per ottenere soldi, le ragazze ricattano Rino, detto il “porco”, che peraltro intrattiene un rapporto blandamente incestuoso con la sorella. Franco, il padre di Luisa, è un uomo stolido, sempre in canottiera, e maltratta la moglie. Come il suo amico Rino, è visceralmente razzista e frequenta un poligono di tiro. Vive con la famiglia in una casa sciatta, che fa tutt’uno con la stalla – come i campi con le discariche. Il paesaggio è un insieme disarticolato di costruzioni in cui si distingue solo un grande albergo nero (in cui lavorano, sottopagate, le ragazze), che richiama la Kaaba vista da Franco in un documentario su Bin Laden. Una mecca del piacere negata ai locali che non hanno nemmeno la consolazione di sentirsi comunità. Il tessuto sociale è infatti frantumato (come lo stile narrativo scelto per descriverlo). A creare un minimo senso di fratellanza non è il prete (si va a messa per abitudine) ma il leader di un movimento indipendentista e, durante una sagra, un ballo country. Ricerca di un’identità regionale e spensierata sottomissione alla potenza egemone (la cui bandiera a stelle e strisce campeggia sul palco). Due istanze che non entrano in conflitto perché in questo vuoto culturale tutto può essere assorbito.
Piccola patria è insomma il racconto di una waste land, di un dantesco «paese guasto». Come, con una ferocia diversamente modulata, i lavori di Vitaliano Trevisan e il recente Cartongesso di Francesco Maino, per rimanere in Veneto. O, tornando al cinema e allargando il perimetro all’intera nazione, alcuni film di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, e l’esordio di Alice Rohrwacher. Squallore urbanistico, degrado morale e vuoto culturale sono sempre più i temi che permettono a un regista di affermarsi come autore. Nel film di Rossetto, però, l’eccesso di zelo è tale da rendere caricaturale il mondo narrato. Dai luoghi esclusivamente brutti ai personaggi privi di sfaccettature, a una sola dimensione; a parte la protagonista, i cui comportamenti immorali comunque si spiegano con l’influenza nefasta dell’ambiente in cui si trova a vivere. Sociologismo sommario. Mentre imbarazzante è il trattamento politicamente corretto riservato a Bilal, il fidanzato albanese di Luisa. Sensibile, solidale, moralmente solido e dedito con umiltà al lavoro di stalliere. Un cavaliere senza macchia che rivela la schematica tesi del film. La realtà, però, è più complessa, e se si ha l’ambizione di raccontarla bisogna andare fino in fondo e restituirle, senza paraventi ideologici, tutta questa complessità.