[ trad. it. di I. Zagaglia, Bompiani, Milano 2022 ]
Chi ricorda la figura di Pontus de Tyard (1521-1605), poeta sodale della Pléiade, può pensare a una curiosa coincidenza onomastica. Joseph Ponthus è invero lo pseudonimo che Baptiste Cornet (1978-2021) si è scelto, proclamandosi erede di Pontus al punto da sfoggiarne un ritratto tatuato su di un braccio. Accolto in Francia con grande eco critica e mediatica nel 2019, il suo À la ligne (titolo interpretabile sia come “a capo” sia come “alla/sulla linea di produzione”) è d’altronde anche un poema nato per amore quando l’autore si è sposato e ha dovuto cercare lavoro nel Nord Ovest della Francia. Da laureato in Lettere si è così trovato operaio interinale nel settore agroalimentare bretone, prima in uno stabilimento di lavorazione del pesce e poi in un mattatoio. Nel testo, ora tradotto nella collana «Narratori stranieri» di Bompiani col titolo Alla linea, si fa riferimento esplicito a tali circostanze: «Non ci andavo per fare un reportage / Men che meno per preparare la rivoluzione / No / La fabbrica è per i soldi» (p. 9). Ma come non aggrapparsi alle parole altrui (poesie e canzoni) apprese a memoria nel corso di una vita per mantenere la cadenza, il ritmo, la concentrazione e la libertà malgrado il trambusto e la fatica della catena? E, poi, come non rimuginare parole proprie su quel mondo altro e poco accessibile che è la fabbrica? Ponthus ha presto messo a punto il solo dispositivo per lui valido in quel contesto: nei dieci o quindici secondi al massimo di “libertà” tra un gesto e l’altro imposto dal lavoro, comporre brevi testi da ripetersi e presto memorizzare; a casa, trascriverli rinunciando a ogni punteggiatura e creare con gli a capo un prosimetro – come ha specificato in alcune interviste – che non riproducesse il ritmo coatto delle macchine trasponibile in versi regolari, per esempio alessandrini, bensì quello irregolare delle pause in cui sono nati versi liberi e diseguali. I Fogli di fabbrica (sottotitolo dell’opera) di Ponthus si discostano pertanto formalmente dai resoconti narrativi di Simone Weil o degli établis alla Robert Linhart, inscrivendosi piuttosto in una tradizione poetica rappresentata in Francia da Thierry Metz o Leslie Kaplan con frequenti richiami alla letteratura di guerra di Guillaume Apollinaire e Blaise Cendrars. Dall’Italia notiamo poi qualche possibile rinvio al Tuta Blu (1978) di Di Ciaula, celebre oltralpe, dove si diceva già che «sul lavoro canticchiamo per tenerci allegri. Non per allegria ma per rabbia» (p. 56 della riedizione 2022) mentre Ponthus si arrabbia davvero quando in reparto non c’è «nemmeno il tempo di cantare» (p. 178); e poco oltre aggiunge: «Nessun uccello mai entra da un’apertura nascosta per introdursi nei laboratori» rievocando forse un altro passo noto di Tuta Blu: «Oggi pomeriggio un passero è entrato nel capannone svolazzando disperatamente» (p. 131). Tra citazioni di Trenet, Brel, Barbara e Halliday, che Ileana Zagaglia ha dovuto tradurre, di Ronsard, Rabelais, Char e Aragon la versione italiana rincorre ritmo e creatività dell’originale soprattutto nella variopinta prima parte dedicata alle lavorazioni ittiche: «A dépoter des lieux communs» diventa «A scaricare discorsi sgombri di profondità» (p. 26); «à demouler des moules / Non les fruits de mer / Mais des moules genre ustensiles de cuisine» è reso con «a tirar fuori stampi / Non scampi ma stampi / Quelle teglie da cucina» (p. 37). Nella seconda, più cupa, il senso politico del libro si rafforza con il quadro preciso di come ricattabilità e frammentazione contrattuale neghino ogni diritto sindacale agli interinali: «Faccio parte dell’esercito di riserva di cui parla il grande Karl» (p. 227). L’attivismo potrà continuare altrove. «La fine della fabbrica sarà come la fine dell’analisi / Sarà semplice e chiara come una verità / La mia verità» (p. 189), scrive l’autore per concludere: «C’è che non ci sarà mai / Un / Punto finale / Alla linea» (p. 239): punto e a capo senza punto finale, dunque, anche se Ponthus ci ha lasciato appena quarantaduenne.
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